La Libia, giunta al suo secondo anno di "transizione", ha festeggiato a
modo suo l'anniversario della dichiarazione di vittoria sull'esercito di
Gheddafi, seguita alla cattura e all'uccisione del Rais nelle strade di
Sirte: frotte di ex-combattenti ormai disabili hanno fatto irruzione
ieri nel Parlamento di Tripoli, occupandolo e vandalizzandone una parte.
Il deputato Mohammed al-Khalil al-Zarruq ha dichiarato che il gruppo,
proveniente dalla città cirenaica di Ajdabiya - teatro di una delle
battaglie più sanguinose della guerra libica - è entrato nella camera
del Congresso quando era vuota, lamentando un "nuovo assalto alle
istituzioni". Assalto che arriva a due settimane dal rapimento-lampo
del premier Ali Zaidan, prelevato in pigiama e pantofole dalla sua
camera d'albergo da un gruppo armato e rilasciato qualche ora dopo.
Il gruppo che ha rivendicato il rapimento, ovvero la Camera dei
Rivoluzionari di Libia, è un puntino nella galassia delle milizie che,
dopo la caduta di Gheddafi, hanno rifiutato di consegnare le armi e sono
quindi state delegate dal nuovo governo - chi più chi meno - a
espletare varie funzioni relative alla "sicurezza": scorta, guardie,
polizia, e perfino militari, dato che la voluta debolezza dell'esercito
addestrato da Gheddafi - in un mondo arabo in cui l'esercito continua
ad avere un ruolo preponderante nella società - non lasciava speranze
di poter rinascere dalle sue ceneri.
Il governo libico, nominato lo scorso anno e sostenuto dalla Nato, tra i
suoi compiti si era prefisso quello di riportare la sicurezza nel Paese
togliendo le armi alle brigate di ex-combattenti: un compito alquanto
arduo, per un esecutivo che non riesce neanche a mettere piede fuori
dall'aeroporto di Benghasi, seconda città libica completamente in mano
alle milizie della zona. Dopo il rilascio, infatti, il premier si era
recato nella capitale della Cirenaica, dove era stato costretto a tenere
una conferenza stampa nella sala d'attesa dell'aeroporto - a detta
sua"organizzata lì" - a causa di alcuni gruppi armati che assediavano
l'aeroscalo.
Un esecutivo che però permette a Stati terzi di violare la sua sovranità
per prelevare presunti terroristi, com'è accaduto all'inizio del mese,
quando con un blitz le forze statunitensi hanno catturato Abu Anas
al-Liby, accusato da Washington di essere la mente dietro gli attentati
alle ambasciate Usa in Kenya e in Tanzania che nel 2000 costarono la
vita a 224 persone. Zeidan, che non ha confermato di essere a conoscenza
del blitz - se non di aver aiutato l'alleato Usa - non ha neppure
smentito.
Un fallimento, quello dell'attuale governo, che rischia di trascinarsi
per anni. Con la produzione e l'esportazione di petrolio a intermittenza
ormai da mesi - e impossibilitata a riprendere regolarmente a causa
del controllo delle milizie in Cirenaica, dove si trova la maggior parte
dei giacimenti libici - l'economia stenta a ripartire del tutto.
Ma oltre al disastro economico e politico, la Libia affronta anche
quello sociale: ci sarebbero infatti più di 65 mila rifugiati interni,
costretti a fuggire dagli attacchi o portati via dalle milizie per la
loro presunta affiliazione con Gheddafi. Amnesty ha denunciato oggi che
intere comunità, come gli abitanti di Tawargha o la tribù dei Mashashya
di Sirte e Bani Walid, sono soggette a rappresaglie, discriminazioni,
torture e persino esecuzioni sommarie dalle milizie che regnano ora nel
Paese, specialmente da quelle stanziate a Misurata, la città forse più
duramente colpita dalla guerra. In particolare tra gli abitanti di
Tawargha ci sarebbero 1.300 desaparecidos. "Le richieste di giustizia
dei residenti di Misurata - ha dichiarato Hassiba Hajj Saharawi,
direttore aggiunto di Amnesty per il Medio Oriente e il Nord Africa -
per i crimini di guerra sono giustificate, ma la giustizia non può
essere selettiva e un'intera comunità non può essere punita
collettivamente".
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