Ieri, con una mossa a sorpresa, l'Arabia Saudita ha rinunciato ad una
poltrona al tavolo del Consiglio di Sicurezza Onu, tra i cinque paesi in
carica per due anni. Una decisione senza precedenti che ha causato non pochi mal di
pancia tra la comunità internazionale.
Ufficialmente il "gran rifiuto" saudita è stato giustificato dal
governo con l'incapacità delle Nazioni Unite - Consiglio di Sicurezza in
testa - a venire a capo dei conflitti globali, in particolare di quelli
che destabilizzano il Medio Oriente. Alla monarchia saudita,
alleata di ferro e di lungo corso degli Stati Uniti, non è andata giù la
rinuncia ad un intervento esterno contro la Siria, per il quale si era
spesa per due anni e mezzo, brandendo la spada delle sanzioni e
lanciando la Lega Araba contro Damasco. E non è andata giù neppure
l'apertura storica all'Iran del nuovo corso moderato di Rowhani. Infine,
il conflitto israelo-palestinese: Washington non sta facendo
abbastanza.
"I metodi, i meccanismi di azione e i doppi standard che esistono in
Consiglio di Sicurezza gli impediscono di svolgere i propri doveri e di
assumersi la responsabilità di preservare la pace e la sicurezza
internazionali - ha detto il Ministero degli Esteri saudita in un
comunicato - Permettere al regime siriano di uccidere il suo popolo e di
bruciarlo con le armi chimiche di fronte al mondo intero e senza alcun
deterrente o punizione è la prova chiara dell'incapacità del Consiglio
di Sicurezza ad assumersi le proprie responsabilità".
La giustificazione apportata potrebbe far sorridere - e ha fatto
amaramente sorridere - soprattutto le organizzazioni internazionali per i
diritti umani, che ben conoscono le politiche antidemocratiche,
misogine e repressive del dissenso implementate da decenni dai sauditi.
Un classico "doppio standard". Allo stesso modo, il dito puntato sulla
questione palestinese apre la strada a domande e dubbi sul ruolo
svolto da uno dei più grandi e potenti Paesi arabi nella soluzione del
conflitto o, almeno, nel sostegno ad un popolo sotto occupazione.
Il rifiuto di ieri ha inoltre sorpreso perché da mesi il governo saudita
era impegnato in una consistente campagna di lobby per accaparrarsi una
poltrona che non è mero prestigio internazionale, ma anche potere di
esprimere le proprie posizioni su risoluzione globali. Proprio quello
che vuole Riad: da tempo ormai i sauditi sono impegnati nel tentativo
di assumere la leadership mediorientale e per farlo si sono auto
affidati il ruolo di cani da guardia dei regimi siriano e iraniano.
Ciò rende la decisione saudita parzialmente imperscrutabile: perché
rinunciare ad una poltrona che gli permetterebbe di avere maggiore
influenza su decisioni riguardanti i nemici Damasco e Teheran? Secondo
alcuni osservatori, a far pendere l'ago della bilancia verso il no è
stata la necessità di garantire le alleanze economiche e strategiche con
gli Stati Uniti. È capitato molto spesso che in Assemblea Generale
l'Arabia Saudita votasse contro risoluzioni o mozioni promosse da
Washington. Sedere in Consiglio di Sicurezza e doversi schierare
apertamente contro l'alleato potrebbe creare problemi ai rapporti tra i
due Paesi.
Non sempre gli interessi strategici dei due Paesi coincidono: l'Arabia
Saudita teme che un aperto dissenso con gli Stati Uniti possa mettere a
rischio non solo i rapporti economici ed energetici, ma anche (e
soprattutto) l'immunità di cui gode nonostante le gravi violazioni dei
diritti umani compiute nel Paese.
Per quanto riguarda il Consiglio di Sicurezza, non è ancora chiaro cosa
accadrà: l'Assemblea Generale potrebbe non accettare il rifiuto saudita,
nel qual caso il seggio resterebbe ad una Riad assente e a riunirsi
sarebbero solo 14 membri. Oppure l'Assemblea potrebbe votare per la
nomina di un altro Paese della regione.
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