di Michele Paris
I governi di
Stati Uniti e Afghanistan sembrano avere fatto nei giorni scorsi un
significativo passo avanti verso la stipula di un sofferto accordo
militare bilaterale per mantenere un numero significativo di truppe
americane sul territorio del paese centro-asiatico dopo il ritiro della
maggior parte delle forze di occupazione NATO alla fine del 2014.
L’annuncio
di una bozza preliminare di accordo è stato fatto nello scorso fine
settimana, in seguito a due giorni di serrate discussioni tra il
presidente afgano, Hamid Karzai, e il segretario di Stato americano,
John Kerry. La stesura di un testo definitivo approvato da entrambe le
parti appare però ancora relativamente lontana e dipenderà, in sostanza,
dal grado in cui Washington e Kabul riusciranno a superare o a
resistere la diffusa ostilità tra la popolazione locale per una presenza
statunitense continuata in Afghanistan.
Secondo quanto riferito
alla stampa dai diplomatici americani, il documento su cui Kerry e
Karzai avrebbero raggiunto un’intesa di massima dovrà essere sottoposto
ad un processo di revisione legale negli Stati Uniti, anche se
l’amministrazione Obama vorrebbe mandare in porto l’accordo definitivo
già entro la fine di ottobre.
Le maggiori preoccupazioni
riguardano tuttavia l’approvazione dell’accordo da parte di un’assemblea
tradizionale di leader tribali afgani (“Loya Jirga”) a cui Karzai
intende rivolgersi per dare una qualche legittimità ad una misura
tutt’altro che gradita alla popolazione e che perpetuerebbe per molti
anni la presenza militare americana nel paese.
In particolare,
uno dei punti più controversi risulta essere l’immunità legale da
assicurare ai militari statunitensi dispiegati sul territorio afgano e
su cui le autorità di Washington appaiono irremovibili. Lo stesso Kerry è
stato infatti estremamente chiaro, affermando che, “se la questione
della giurisdizione [immunità] non dovesse essere risolta, purtroppo non
ci sarà alcun accordo bilaterale”.
Dal
momento che un’occupazione come quella in corso da oltre un decennio in
Afghanistan contro il volere della maggioranza della popolazione
richiede il ricorso a metodi brutali - evidenziati dagli innumerevoli
crimini commessi dai militari stranieri in questi anni - la richiesta di
giudicare negli Stati Uniti coloro che violano le leggi locali è una
condizione imprescindibile per qualsiasi accordo con Kabul.
Sulle
trattative pesa anche il precedente dell’Iraq del 2011, quando la
mancata intesa con il governo Maliki sulla stessa questione
dell’immunità contribuì a far naufragare le trattative per la permanenza
indefinita nel paese che fu di Saddam Hussein di un contingente
militare americano dopo il ritiro previsto per la fine di quell’anno.
Un’altra
disputa che sta complicando i negoziati tra Washington e Kabul è poi
quella legata alle operazioni “anti-terrorismo” condotte dalle forze
speciali americane e che si risolvono puntualmente in un motivo di
imbarazzo per il governo afgano. Queste operazioni sono profondamente
avversate dalla popolazione, visto che consistono spesso in assalti
notturni ad abitazioni private con “danni collaterali” di civili
tutt’altro che trascurabili.
Sulle operazioni delle forze
speciali a stelle e strisce, le quali mettono in discussione anche la
sovranità stessa dello stato afgano, Karzai ha spesso dovuto esprimere
pubblicamente la propria condanna nei confronti degli Stati Uniti. La
delicatezza della questione è apparsa evidente ancora una volta proprio
nel fine settimana, quando gli americani hanno “catturato” in territorio
afgano un leader dei Talebani pakistani - Latif Mehsud - mentre era
sotto custodia proprio del governo di Kabul.
In definitiva,
Karzai si ritrova a dover cercare a tutti i costi di finalizzare un
accordo militare con gli Stati Uniti di fronte alle resistenze
manifestate contro di esso dalla maggioranza degli afgani poiché dalla
presenza a lungo termine delle forze di occupazione dipende la sua
permanenza al potere e quella della sua cerchia familiare. Anche se non
potrà ricandidarsi alle elezioni presidenziali del prossimo mese di
aprile, Karzai ha comunque bisogno del sostegno e della presenza
americana per garantire un passaggio di consegne indolore ad un futuro
presidente di sua scelta.
La classe dirigente afgana, più in
generale, vede con favore la prosecuzione dell’occupazione americana,
non solo perché deve a Washington la propria posizione di privilegio ma
soprattutto perché la situazione della sicurezza nel paese asiatico è
tornata a deteriorarsi negli ultimi tempi. Le forze di sicurezza locali
non sono infatti in grado di operare autonomamente e un eventuale
abbandono dell’Afghanistan da parte del contingente NATO riporterebbe
con ogni probabilità al potere i Talebani, con i quali oltretutto il
complicato processo di pacificazione ha subito una nuova battuta
d’arresto dopo l’ennesimo annuncio dell’apertura del dialogo qualche
settimana fa.
Allo
stesso tempo, Karzai è ben consapevole che la presenza di una forza
occupante in Afghanistan contribuisce ad alimentare l’instabilità e le
tensioni nel paese. Come ha spiegato in un’intervista al Wall Street Journal
nel fine settimana Shahmahmood Miakhel, responsabile per l’Afghanistan
del think tank di Washington U.S. Institute for Peace, Karzai perciò
“vuole il trattato bilaterale sulla sicurezza ma non ne vuole la
responsabilità”.
Anche per questa ragione, Karzai ha deciso di
sottoporre la questione ad un’assemblea tribale che, però, non
rappresenta tanto il volere della popolazione quanto i leader locali
afgani, spesso fedeli allo stesso presidente e comunque esposti alle
pressioni e alle promesse del governo centrale, soprattutto in vista
delle elezioni della prossima primavera.
In ogni caso, questa
sorta di prova di democrazia tribale per decidere il futuro dell’accordo
bilaterale con Washington dovrebbe tenersi entro un mese e ad essa
parteciperà qualche centinaia di persone, una parte delle quali hanno
già approvato negli ultimi anni svariate iniziative del presidente
Karzai, compresa la sua elezione alla guida del paese nel 2002.
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