di Mario Lombardo
Tra poco più di due settimane, le elezioni per il rinnovo del
Parlamento in Ungheria assegneranno con ogni probabilità una nuova
schiacciante vittoria ad un partito di governo che è stato accusato di
avere impresso una svolta anti-democratica senza precedenti nella storia
del paese mitteleuropeo di questi ultimi due decenni. Dopo avere
conquistato più del 52% dei voti espressi nelle elezioni del 2010, il
partito di destra Fidesz del primo ministro Viktor Orbán viene
accreditato di un consenso più o meno simile anche in vista
dell’appuntamento con le urne del 6 aprile prossimo.
Infatti, i
più recenti sondaggi assegnano in media a Fidesz circa il 49% delle
preferenze tra gli elettori che hanno già preso una decisione, contro il
26% per la coalizione di centro-sinistra all’opposizione, guidata dal
Partito Socialista (MSZP).
Le prospettive poco meno che trionfali
del partito al potere sono dovute ad un insieme di fattori, il primo
dei quali è legato all’approvazione nel 2011 di una legge elettorale che
lo favorisce pesantemente, grazie al premio di maggioranza previsto per
il vincitore, alla ridefinizione dei distretti elettorali e alla
fissazione di soglie minime per l’ingresso in Parlamento dei partiti
minori.
Inoltre, le norme che regolano la campagna elettorale
sono diventate molto restrittive per tutti i partiti, anche se esse
penalizzano in larga misura quelli di opposizione. Le televisioni
private, cioè, non possono trasmettere messaggi elettorali di partiti e
candidati, ma questa regola non si applica al governo. L’esecutivo può
quindi fare propaganda sui media privati, come sta appunto accadendo in
questa campagna elettorale, così che i messaggi trasmessi si risolvono
di fatto in slogan a favore del partito di governo.
Fidesz, così,
nel prossimo Parlamento avrà quasi certamente i due terzi dei seggi,
come nella legislatura che sta per terminare, durante la quale la
maggioranza ha potuto approvare una nuova e discussa carta
costituzionale di fronte alle proteste interne e internazionali. La
nuova Costituzione ha sancito l’impronta sempre più autoritaria del
governo Orbán, responsabile di una serie di misure anti-democratiche che
vanno, ad esempio, dalla severa limitazione della libertà di stampa
all’indebolimento del principio della separazione dei poteri,
esemplificato dalle maggiori attribuzioni garantite all’esecutivo in
ambito giudiziario.
Parallelamente, il governo Orbán ha adottato
alcune misure di stampo populista che gli hanno garantito una certa
popolarità, come il taglio delle tariffe dell’energia per i privati. In
una campagna elettorale segnata da un senso di inevitabilità, il premier
ha poi promesso di abbassare i costi energetici anche per le industrie
ungheresi.
Il contributo decisivo al prossimo successo elettorale
di Fidesz viene però dalle condizioni in cui versano i partiti di
opposizione, ampiamente screditati agli occhi degli ungheresi. I
precedenti governi a maggioranza socialista, guidati dagli ex membri del
partito, Ferenc Gyurcsány e Gordon Bajnai, oltre ad avere dovuto
fronteggiare svariati scandali, sono stati protagonisti
dell’implementazione di pesantissime misure di austerity contro il
volere della popolazione.
Lo
stesso MSZP del candidato premier Attila Mesterházy si presenterà ora
alle urne in un’alleanza elettorale con i partiti di Gyurcsány, Bajnai
ed altri ancora, con al centro del proprio programma – oltre a vuote
promesse di riforme sociali – un riavvicinamento all’Unione Europea dopo
questi anni di scontro tra Bruxelles e il governo Orbán.
In un
intervento pubblico mercoledì alla Camera di Commercio ungherese, lo
stesso primo ministro ha da parte sua promesso di proseguire le
politiche economiche messe in atto negli ultimi quattro anni,
rivendicando la legittimità di un modello differente da quello promosso
dall’Unione Europea.
Orbán ha fatto riferimento in particolare a
misure – tutt’altro che gradite a Bruxelles e agli ambienti finanziari
internazionali – volte a favorire il business indigeno e a penalizzare
le compagnie straniere operanti in Ungheria. Lo stesso principio Orbán
ha affermato di volerlo applicare anche al settore bancario, per fare in
modo che almeno la metà degli istituti del paese sia “in mano
ungherese”.
Al di là di iniziative simili improntate al
nazionalismo economico, che favoriscono esclusivamente le élite magiare,
il governo di estrema destra al potere a Budapest non ha risparmiato
attacchi alle fasce più deboli della popolazione, sia con misure di
rigore che con leggi anti-democratiche, come l’obbligo di accettare
qualsiasi impiego per i disoccupati o la persecuzione dei senzatetto.
Le
tendenze autoritarie emerse con il governo Orbán hanno inevitabilmente
prodotto uno spostamento a destra dell’asse politico ungherese e il
conseguente emergere di proteste di piazza e tensioni sociali. Ciò ha
determinato la legittimazione di forze estremiste se non apertamente
neo-fasciste, rappresentate in primo luogo dal partito anti-semita
Jobbik, il quale appoggia talvolta le iniziative di legge di Fidesz.
Jobbik era stato in grado di ottenere quasi il 17% nelle elezioni del
2010 e i suoi rappresentanti occupano attualmente 43 seggi in
Parlamento.
Per
Orbán e Fidesz, in ogni caso, gli scontri con l’Unione Europea e con
gli Stati Uniti potrebbero intensificarsi anche a causa delle scelte di
Budapest in politica estera. Al contrario di quasi tutti gli altri paesi
dell’Europea orientale, l’Ungheria di questi ultimi anni ha cercato
infatti di costruire rapporti di collaborazione con tutte le potenze
globali, comprese Russia e Cina.
Il premier Orbán – come fece il
presidente ucraino Yanukovich poco prima della sua deposizione – è stato
ad esempio protagonista lo scorso febbraio di una visita di tre giorni
in Cina, dove assieme al presidente, Xi Jinping, ha discusso delle
modalità con cui approfondire la cooperazione tra i due paesi.
Orbán,
infine, ha fatto della Russia uno dei partner strategici dell’Ungheria,
siglando nel mese di gennaio un accordo con Mosca per l’ampliamento del
settore nucleare domestico a scopi energetici. In base all’intesa –
criticata dall’opposizione socialista – Budapest otterrà un prestito
dalla Russia di quasi 14 miliardi di dollari nei prossimi tre decenni
per finanziare l’ambizioso progetto.
Non a caso, perciò, in
questi giorni il primo ministro ungherese ha evitato di unirsi al coro
di condanne verso il Cremlino provenienti dai governi dell’est europeo
in seguito ai fatti di Crimea. Una posizione relativamente indipendente
da Bruxelles e Washington, quella mostrata da Orbán, che rischia però di
essere molto rischiosa nel prossimo futuro, vista la sorte riservata ai
leader di quei paesi che intendono intraprendere un percorso
alternativo al totale allineamento agli interessi strategici
occidentali.
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