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21/03/2014

Ungheria, Orban verso la conferma

di Mario Lombardo

Tra poco più di due settimane, le elezioni per il rinnovo del Parlamento in Ungheria assegneranno con ogni probabilità una nuova schiacciante vittoria ad un partito di governo che è stato accusato di avere impresso una svolta anti-democratica senza precedenti nella storia del paese mitteleuropeo di questi ultimi due decenni. Dopo avere conquistato più del 52% dei voti espressi nelle elezioni del 2010, il partito di destra Fidesz del primo ministro Viktor Orbán viene accreditato di un consenso più o meno simile anche in vista dell’appuntamento con le urne del 6 aprile prossimo.

Infatti, i più recenti sondaggi assegnano in media a Fidesz circa il 49% delle preferenze tra gli elettori che hanno già preso una decisione, contro il 26% per la coalizione di centro-sinistra all’opposizione, guidata dal Partito Socialista (MSZP).

Le prospettive poco meno che trionfali del partito al potere sono dovute ad un insieme di fattori, il primo dei quali è legato all’approvazione nel 2011 di una legge elettorale che lo favorisce pesantemente, grazie al premio di maggioranza previsto per il vincitore, alla ridefinizione dei distretti elettorali e alla fissazione di soglie minime per l’ingresso in Parlamento dei partiti minori.

Inoltre, le norme che regolano la campagna elettorale sono diventate molto restrittive per tutti i partiti, anche se esse penalizzano in larga misura quelli di opposizione. Le televisioni private, cioè, non possono trasmettere messaggi elettorali di partiti e candidati, ma questa regola non si applica al governo. L’esecutivo può quindi fare propaganda sui media privati, come sta appunto accadendo in questa campagna elettorale, così che i messaggi trasmessi si risolvono di fatto in slogan a favore del partito di governo.

Fidesz, così, nel prossimo Parlamento avrà quasi certamente i due terzi dei seggi, come nella legislatura che sta per terminare, durante la quale la maggioranza ha potuto approvare una nuova e discussa carta costituzionale di fronte alle proteste interne e internazionali. La nuova Costituzione ha sancito l’impronta sempre più autoritaria del governo Orbán, responsabile di una serie di misure anti-democratiche che vanno, ad esempio, dalla severa limitazione della libertà di stampa all’indebolimento del principio della separazione dei poteri, esemplificato dalle maggiori attribuzioni garantite all’esecutivo in ambito giudiziario.

Parallelamente, il governo Orbán ha adottato alcune misure di stampo populista che gli hanno garantito una certa popolarità, come il taglio delle tariffe dell’energia per i privati. In una campagna elettorale segnata da un senso di inevitabilità, il premier ha poi promesso di abbassare i costi energetici anche per le industrie ungheresi.

Il contributo decisivo al prossimo successo elettorale di Fidesz viene però dalle condizioni in cui versano i partiti di opposizione, ampiamente screditati agli occhi degli ungheresi. I precedenti governi a maggioranza socialista, guidati dagli ex membri del partito, Ferenc Gyurcsány e Gordon Bajnai, oltre ad avere dovuto fronteggiare svariati scandali, sono stati protagonisti dell’implementazione di pesantissime misure di austerity contro il volere della popolazione.

Lo stesso MSZP del candidato premier Attila Mesterházy si presenterà ora alle urne in un’alleanza elettorale con i partiti di Gyurcsány, Bajnai ed altri ancora, con al centro del proprio programma – oltre a vuote promesse di riforme sociali – un riavvicinamento all’Unione Europea dopo questi anni di scontro tra Bruxelles e il governo Orbán.

In un intervento pubblico mercoledì alla Camera di Commercio ungherese, lo stesso primo ministro ha da parte sua promesso di proseguire le politiche economiche messe in atto negli ultimi quattro anni, rivendicando la legittimità di un modello differente da quello promosso dall’Unione Europea.

Orbán ha fatto riferimento in particolare a misure – tutt’altro che gradite a Bruxelles e agli ambienti finanziari internazionali – volte a favorire il business indigeno e a penalizzare le compagnie straniere operanti in Ungheria. Lo stesso principio Orbán ha affermato di volerlo applicare anche al settore bancario, per fare in modo che almeno la metà degli istituti del paese sia “in mano ungherese”.

Al di là di iniziative simili improntate al nazionalismo economico, che favoriscono esclusivamente le élite magiare, il governo di estrema destra al potere a Budapest non ha risparmiato attacchi alle fasce più deboli della popolazione, sia con misure di rigore che con leggi anti-democratiche, come l’obbligo di accettare qualsiasi impiego per i disoccupati o la persecuzione dei senzatetto.

Le tendenze autoritarie emerse con il governo Orbán hanno inevitabilmente prodotto uno spostamento a destra dell’asse politico ungherese e il conseguente emergere di proteste di piazza e tensioni sociali. Ciò ha determinato la legittimazione di forze estremiste se non apertamente neo-fasciste, rappresentate in primo luogo dal partito anti-semita Jobbik, il quale appoggia talvolta le iniziative di legge di Fidesz. Jobbik era stato in grado di ottenere quasi il 17% nelle elezioni del 2010 e i suoi rappresentanti occupano attualmente 43 seggi in Parlamento.

Per Orbán e Fidesz, in ogni caso, gli scontri con l’Unione Europea e con gli Stati Uniti potrebbero intensificarsi anche a causa delle scelte di Budapest in politica estera. Al contrario di quasi tutti gli altri paesi dell’Europea orientale, l’Ungheria di questi ultimi anni ha cercato infatti di costruire rapporti di collaborazione con tutte le potenze globali, comprese Russia e Cina.

Il premier Orbán – come fece il presidente ucraino Yanukovich poco prima della sua deposizione – è stato ad esempio protagonista lo scorso febbraio di una visita di tre giorni in Cina, dove assieme al presidente, Xi Jinping, ha discusso delle modalità con cui approfondire la cooperazione tra i due paesi.

Orbán, infine, ha fatto della Russia uno dei partner strategici dell’Ungheria, siglando nel mese di gennaio un accordo con Mosca per l’ampliamento del settore nucleare domestico a scopi energetici. In base all’intesa – criticata dall’opposizione socialista – Budapest otterrà un prestito dalla Russia di quasi 14 miliardi di dollari nei prossimi tre decenni per finanziare l’ambizioso progetto.

Non a caso, perciò, in questi giorni il primo ministro ungherese ha evitato di unirsi al coro di condanne verso il Cremlino provenienti dai governi dell’est europeo in seguito ai fatti di Crimea. Una posizione relativamente indipendente da Bruxelles e Washington, quella mostrata da Orbán, che rischia però di essere molto rischiosa nel prossimo futuro, vista la sorte riservata ai leader di quei paesi che intendono intraprendere un percorso alternativo al totale allineamento agli interessi strategici occidentali.

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