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02/04/2014

La crisi venezuelana

Vengo a mantenere una promessa: dire quel che penso sulla crisi venezuelana (e subito dopo parlerò dell’Ucraina). Ci ho messo un po’ di tempo a scrivere su questo tema perché, lo confesso, mi pesano le dita a scrivere certe cose su cui, pure, occorre esser chiari. Partiamo da un dato iniziale incontrovertibile: il Venezuela rappresenta una delle massime riserve mondiali di petrolio di cui esporta qualcosa come 3 milioni di barili al giorno. Però il Venezuela è un paese nel quale la popolazione è ridotta alla fame: i negozi sono vuoti, ci sono file lunghissime per trovare latte, riso, carne di pollo (la più usata), zucchero ecc. Ovviamente la prima domanda che dobbiamo farci è come stiano insieme queste due cose e che fine facciano i proventi del petrolio.

Il secondo dato da cui partire è che da 15 anni il Venezuela è retto ininterrottamente (salvo una parentesi di pochi giorni seguita al colpo di stato tentato e fallito nel 2002) dal partito politico capeggiato da Hugo Chavez, e, pertanto, le responsabilità politiche della situazione attuale ricadono in primo luogo su questo governo.

Hugo Chavez ha proposto una particolare forma di socialismo (che fondeva ispirazioni marxiste, luxemburghiane, di socialismo cristiano e di nazionalismo di sinistra, appunto, bolivariano) che manteneva tutte le caratteristiche della democrazia rappresentativa, basata sulla libertà di stampa, associazione, pluralismo politico ecc. Si può discutere su singoli casi, ma nessuno può negare che all’opposizione è stato costantemente garantito il diritto di stampa, parola, associazione, manifestazione e partecipazione alle elezioni. Anche dopo il tentativo di colpo di stato del 2002, non ci sono state significative misure restrittive delle libertà democratiche e non ci sono state esecuzioni ma una blandissima repressione.

Chavez tornò al potere in pochi giorni e fu sempre sostenuto da tassi di popolarità molto alti. Nel periodo chavista si è formato uno stato sociale in Venezuela molto generoso (forse anche un po’ troppo per le disponibilità concrete) che ha alleviato antiche miserie. Anche per questo molti guardarono con simpatia più o meno critica (e sono stato fra questi, lo ammetto senza imbarazzi) al suo tentativo che prometteva un socialismo non più autoritario o dittatoriale.

Tutto questo è vero e resta al pari del riconoscimento delle conquiste sociali che il regime chavista ha portato. Ma questo non significa che non ci siano stati errori, anche gravi, che hanno fortemente contribuito alla crisi attuale. In primo luogo, è mancato un progetto di sviluppo economico del paese: il Venezuela esporta solo il petrolio e pochissime altre cose di poco valore (ad esempio cioccolato o rhum), ma per il resto importa tutto. C’è una maledizione dei paesi che fanno troppo affidamento sulla rendita delle materie prime: sono i primi ad essere colpiti dalle crisi, perché si contrae immediatamente la domanda  di commodity e questo è amplificato subito dai mercati finanziari, per cui crollano le azioni delle imprese produttrici e crescono rapidamente gli interessi sul debito. Senza contare che le materie prime non rinnovabili, prima o poi, finiscono.

Il Venezuela ha avuto il vento in poppa  per tutti i primi se anni del secolo, con il prezzo del petrolio. Ma nulla o quasi è stato speso per avviare la nascita di una manifattura locale, neppure in quei settori relativamente più semplici (dall’alimentare al tessile al mobile ecc.) dove non si sarebbe richiesto alcun particolare livello tecnologico e che avrebbe potuto aiutare la bilancia commerciale e sostenere il mercato interno. Sin quando il petrolio è andato in salita, sino a quota 170 dollari al barile dai 40 dell’inizio corsa, il problema non si è posto. I guai sono iniziati dal 2009 quanto il petrolio è tornato a quota 39, per poi risalire molto faticosamente verso i 100, una quotazione certamente alta, ma molto distante dalla precedente e, soprattutto, non particolarmente stabile.

Di fronte a questa tendenza di mercato, il governo chavista (e questo è stato il secondo grave errore) ha reagito ricorrendo con sempre maggiore frequenza al debito internazionale, che ha subito una velocissima escalation proprio dal 2009 in poi, passando da circa il 24-26% del Pil degli anni precedenti, a circa il 50% attuale, per di più a condizioni giugulatorie che ormai sfiorano il 15% annuo, per cui, ormai il paese si indebita per pagare gli interessi sul debito, in una spirale che porta al disastro. La Cina è stato il massimo fornitore di prestiti al Venezuela ma pretendendo non solo salati interessi, ma anche prezzi di favore per il petrolio di cui è il primo acquirente. Dunque, questa volta, gli strozzini non sono (se non in parte) le solite arpie di Wall Street.

E veniamo al terzo errore letale fatto dallo stesso Chavez: non aver neppure tentato la lotta alla corruzione che pure era sollecitata dalla sinistra chavista. Lo stesso partito non era affatto immune dalla piaga così come non lo sono polizia ed esercito e, forse, questo spiega tanta ritrosia ad affrontare la questione. Ma la corruzione ha pesato – e pesa – come un macigno sull’economia venezuelana, creando importanti arricchimenti individuali e portando fuori dal paese masse assai ingenti di capitali.

Per di più, sino a quando Chavez è stato in grado di esercitare le sue funzioni (novembre-dicembre 2012) questi errori trovavano un parziale contrappeso nel suo carisma personale e nella sua capacità di trovare empiricamente qualche soluzione, almeno limitata. Ma dopo la sua morte il governo è caduto nelle mani di Maduro che è un personaggio privo di carisma, eletto per un soffio, cosa che dimenticano troppo spesso i difensori ad oltranza del governo, vantando il costante e vasto consenso popolare che ha lo ha sostenuto in questi 15 anni: cosa vera ma non per il recentissimo passato ed il presente.

La situazione è precipitata negli ultimi mesi: la Cina ha subito un calo sensibile della produzione industriale, e si pone come obbiettivo l’incremento del 7,5% del Pil (quando, sino a pochissimi anni fa, un incremento appena inferiore all’8%, era avvertito come un grave segnale di crisi), inoltre si addensano nubi scurissime sul  futuro finanziario del paese. Pertanto la disponibilità a soccorrere il Venezuela (già non troppo generosa) sta sensibilmente riducendosi al pari delle commesse petrolifere. Ed il peso degli interessi sul debito ormai assorbe circa un terzo dei proventi delle esportazioni petrolifere.

Per capire quale sia la situazione occorre tenere presenti due dati:

a- il debito pubblico venezuelano è in gran parte estero ed è in dollari;

b- il cambio fra bolivar e dollaro, fissato nel 2003 e controllato dal governo, ormai è 10 volte superiore a quello reale che si realizza al mercato nero. Il primo risultato è che, dato che l’unico a dispensare dollari a quel cambio è lo stato, le casse governative si prosciugano per acquistare i dollari da rivendere a quella parità, ma poi quei dollari non finiscono alle (poche) aziende del paese o a spese sociali, ma in gran parte finiscono nelle tasche degli speculatori con “amici” nel regime. Il secondo è che, siccome un chilo di zucchero a Caracas costa 2 bolivar, ma a Medellin, ne costa 150, un buon terzo delle derrate alimentari prende la strada del contrabbando verso la Colombia, comprese anche le derrate acquistate dal governo per essere distribuite a prezzo politico fra la popolazione. E questo spiega in gran parte la penuria di generi alimentari. Per inciso: ma la polizia e l’esercito come fanno a non vedere le colonne di camion che portano la merce di contrabbando in Colombia? E qui, come per la questione dei dollari a cambio ufficiale, torna il tema della corruzione impunita...

La soluzione – di tipo liberista che trova sostenitori nell’ala “pragmatica” del governo Maduro – potrebbe essere quella di svalutare brutalmente il bolivar in modo da far riaffluire le merci sul mercato venezuelano, ma questo avrebbe come effetto l’aumento alle stelle dei prezzi delle merci importate (cioè tutte o quasi) e, dunque, una inflazione bestiale, che colpirebbe soprattutto i ceti popolari. Né il paese potrebbe giovarsi dell’indebolimento della moneta per le esportazioni, perché esporta solo petrolio che è già ai limiti massimi. D’altro canto, anche resistere sulla barriera dell’attuale cambio, finisce per dissanguare le casse statali e serve solo ad alimentare corruzione e contrabbando. Non c’è via di uscita.

La situazione è questa e non mi pare che ci sia da meravigliarsi sul fatto che ci sia la rivolta: secondo voi, se un popolo deve fare la fila per due ore per comprare il latte, il riso o i fagioli e poi trova gli scaffali vuoti, come la prende? Quindi, prima cosa da capire è che c’è una rivolta popolare autentica, nella quale, ragionevolmente, si muovono anche agenti provocatori, fascisti e melma varia, ma questo non toglie che la rivolta ci sia e sia autentica. Smettiamola di pensare che le rivolte sociali sono spontanee quando hanno una targa di sinistra, mentre negli altri casi si tratta solo di congiure reazionarie suscitate dalla Cia.

Ma, dice qualcuno, in piazza ci sono studenti piccolo borghesi e non i ceti popolari che affollano le manifestazioni chaviste. A parte il fatto che alla rivolta partecipano anche componenti popolari, anche se a “macchie di leopardo”, faccio notare che è lo stessissimo argomento usato dal governo italiano e dalla stampa berlusconiana contro il movimento no Tav: “Sono studenti sovversivi che non c’entrano nulla con le popolazioni della val di Susa”. La cosa è per certi versi scontata: in tutte le rivolte i primi a partire sono sempre i giovani che, per ragioni strettamente fisiche, sono quelli più in grado di affrontare gli scontri, e, nel mondo contemporaneo, i giovani sono prevalentemente studenti.

Plaza Altamira è una delle piazze prodotte dalla crisi come Taksim, Occupy Ws, Tahir, Maidan, ecc. ecc. si tratta di prenderne atto ed anche in questo caso giovani o, più specificamente, studenti sono in prima linea.

Che facciamo: quando gli studenti si rivoltano contro governi di destra ci piacciono e sono alleati e quando lo fanno contro governi di sinistra sono “Piccolo borghesi fascisti”? Questo curioso strabismo è tipico di chi fa precedere le ragioni di schieramento ideologico rispetto a quelle di ordine sociale. Classico esempio di “ideologia come falsa coscienza” come ci ha insegnato Marx, che ha sempre anteposto l’attenzione verso i soggetti sociali alle valutazioni di ordine ideologico. E, dunque, i governi di sinistra non hanno una speciale licenza di reprimere che quelli di destra non hanno. Anzi, a definire un soggetto come di sinistra o destra, è in primo luogo la sua collocazione rispetto ai ceti sociali e solo in secondo luogo la sua ideologia. Un’autoproclamazione di sinistra che si accompagni ad atteggiamenti repressivi verso i ceti popolari o anche solo una loro parte, svuota di significato quell’autoproclamazione. Mao, in uno dei suoi rari momenti di ispirazione democratica, parlò di “contraddizioni in seno al popolo” che erano da trattare diversamente da quelle estranee al popolo e la cui soluzione doveva essere di tipo politico e non repressivo. Poi lui non fu affatto coerente con questi assunti, o meglio, risolse il problema espellendo dal popolo tutti quelli che non gradiva, ma questo non significa che quelle sue indicazioni teoriche fossero sbagliate.

“Ma questi sparano”, dicono alcuni. C’è una certa tendenza ad enfatizzare il tema della violenza politica nella questione venezuelana, presentando la situazione come una sanguinosa guerra civile in atto. Non è ancora così.

Ragioniamo: da due mesi diverse decine di migliaia di persone animano una rivolta che, al momento, ha prodotto una quarantina di morti e non tutti ad opera dei manifestanti, ma una porzione anche ad opera delle forze di polizia. Certo quaranta morti sono un dato allarmante e doloroso, ma non è il dato di una guerra civile: se la lotta armata fosse praticata da settori consistenti della rivolta, i morti li conteremmo già a centinaia. Se si tratta di poche decine significa che a sparare sono piccoli gruppi, che si sono infilati nella protesta, una frangia del tutto minoritaria che sta spingendo per arrivare ad uno scontro molto più sanguinoso. “Ma le bottiglie Molotov non le lanciano solo quattro gatti” insisterà qualche altro. Risposta: perché noi nel sessantotto lanciavamo mazzi di fiori?

Allo stesso modo, va detto, che gli organi di informazione occidentali enfatizzano troppo la repressione governativa che c’è, è grave e va oltre i limiti delle operazioni di ordine pubblico necessarie a contenere selle sommosse, ma, insomma, almeno sinora non è Piazza Tien An Men.

Qui, però, ci tocca dire qualcosa in più sulla repressione governativa. Ci sono oltre 2.000 studenti arrestati e tenuti in condizioni inumane, con denunce di torture, e la polizia non risparmia colpi negli scontri. Certo: la polizia non riconosce di aver fatto nessun morto, nega che ci siano torture, conferma di aver arrestato migliaia di persone, ma nega che subiscano trattamenti men che umanitari ecc. Figuriamoci! Cosa dissero i carabinieri e la Polizia a Genova nel 2001? Vi ricordate le versioni su Bolzaneto e la Diaz? Non sapete che tutte le polizie del mondo sono fatte da cultori dei diritti umani e coltivatori di margherite? E non vedo perché dovremmo pensare che la polizia venezuelana sia diversa dai carabinieri italiani o dai Carabineros de Chile.

Quello che è peggio è che la repressione non si limita solo all’azione delle forze di polizia: a tarda sera, quando le manifestazioni studentesche si sciolgono, gruppi in moto, di una sorta di milizia chavista attaccano e pestano i reduci dalle manifestazioni. Non so come si dica in spagnolo, ma in italiano questa prassi si chiama “squadrismo”.

E’ comprensibile che la polizia di qualsiasi paese cerchi di controllare la piazza e di contrastare le proteste violente, anche quando magari sono giustissime, ma cosa c’entra questo con le torture ai detenuti, con lo squadrismo ecc.?

E’ ragionevole pensare che queste pratiche, per così dire, “eccessive”, siano opera dei settori più oltranzisti del partito (che non vuol dire le frange di sinistra) e della polizia per ragioni proprie, ma il governo Maduro copre tutto questo aggiungendo un nuovo peso ai suoi carichi pendenti.

Soprattutto, il governo non tenta neppure una via di uscita politica, cercando il dialogo con la protesta. E per dialogo con piazza Altamira non intendo dialogo con l’opposizione istituzionale di Capriles (che credo non controlli la piazza e non sia riconosciuta come proprio rappresentante). Intendo dialogo proprio con il movimento. Questo lo avrebbe capito Chavez, che non mise mano al bastone neppure dopo il golpe del 2002 ed uscì benissimo dalla crisi senza macchiarsi le mani di sangue. Ma Maduro non è Chavez, è solo un piccolo burocrate di partito cresciuto alla sua ombra.

Su questa strada c’è la liquidazione del progetto di “revolucion bonita” che fu di Chavez e il contemporaneo approdo alla solita ricetta fascistoide del “socialismo da caserma”.

“Ma cosa deve fare il governo Maduro per reggere la situazione?” In primo luogo precipitarsi a rinegoziare il debito, anche a costo di un haircut o di un default, perché a interessi del 15% il Venezuela non regge. In secondo luogo decidersi a combattere la corruzione che è il vero cancro che sta rodendo il sistema politico delegittimandolo. In particolare vigilare molto strettamente sulla destinazione delle derrate alimentari (lì si che ci vedo una repressione molto molto dura!). Poi liquidare le pratiche squadristiche dei gruppi motorizzati, mettere immediatamente fuori i 2000 studenti arrestati, promettere una amnistia qualora le violenze cessino e, su questa base, aprire un confronto con il movimento invitandolo a darsi una rappresentanza.

Da giovane sessantottino cantavo spesso con i compagni una canzone i cui primi versi dicevano:

Alle grida strazianti e dolenti
Di una folla che pan domandava,
Il feroce monarchico Bava
Gli affamati col piombo sfamò.

Allora ho imparato da che parte stare in caso di rivolte del pane. Non ho cambiato idea.

Aldo Giannuli

Fonte

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