Tra gli accusati vi erano importanti nomi del passato regime di Ben Alì:
i primi ministri Rafiq al-Hajj Qassem e Ahmed Fureira, il direttore
generale della sicurezza presidenziale Ali al-Seriati, il Brigadiere
Generale nelle forze d’intervento Jalal Boudriqa, l’ex direttore
generale della Sicurezza Lutfi al-Zawwari, il direttore generale della
Sicurezza nazionale Mohammed al-Adel al-Tuwiri, il comandante della
Guardia nazionale Mohammed al-Amin al-Aabed e altri ufficiali di
sicurezza.
La decisione ha scatenato la rabbia delle famiglie delle vittime.
“E’ una messinscena. Troveremo giustizia in un altro modo. Inizieremo
un’altra rivoluzione” ha detto Ahmed Amri, fratello di una delle
vittime. La decisione di sabato pone un grosso interrogativo: se non è
stato il regime, chi ha ucciso allora quei manifestanti tre anni fa?
Alcune fonti sostengono che i responsabili degli omicidi siano stati
cecchini stranieri arrivati in Tunisia per creare uno stato di
agitazione così da costringere Ben Ali a lasciare il potere.
Argomentazione discutibile e comunque troppo assolutoria verso un regime
brutale contro qualunque forma di opposizione durante i suoi 24 anni di
governo. Più di 300 sono stati i manifestanti uccisi nei giorni della
“rivoluzione” che ha portato alla deposizione di Ben Ali il 14 gennaio.
Una degli avvocati delle vittime, Laila
Haddad, ha annunciato il suo ritiro da tutti i casi accusando il sistema
giudiziario, la classe politica e i partiti di aver tradito il
sacrificio dei “martiri”. Eppure le cose sembravano potessero
andare diversamente all’indomani della caduta di Ben Ali. Gli uomini del
regime venivano arrestati per corruzione, per uso illecito di denaro
pubblico. Le loro proprietà venivano confiscate dalla magistratura.
Molti si illusero che questi primi provvedimenti potessero rappresentare
un “nuovo inizio” verso una “nuova Tunisia” per la quale centinaia di
tunisini erano morti. Un sacrificio che, per quanto doloroso, sembrava
aver avuto un senso. Il verdetto di sabato mostra amaramente quanto siano illusorie al momento quelle speranze. Inoltre ha un significato politico chiaro: il regime è vivo e ha ancora molta influenza in alcune importanti istituzioni.
La transizione politica che la Tunisia sta vivendo in questi anni è spesso descritta dai media occidentali e da alcuni commentatori arabi come un “modello riuscito”. Nonostante gli omicidi politici (Belaid e Brahimi), la crescente forza di gruppi salafiti, la guida fallimentare degli islamisti di an-Nahda, il duro scontro tra governo e opposizione, la Tunisia è stata vista come modello vincente post-rivoluzionario (soprattutto se paragonata a quanto accade in Libia ed Egitto). Il compromesso raggiunto dagli islamisti al governo con le forze di opposizione a inizio anno è stato salutato con gioia nelle cancellerie occidentali ed è stato letto come prima tappa verso la democrazia. L’assoluzione degli uomini di Ben Ali, invece, mostra con tutta evidenza come la strada verso una “nuova Tunisia” sia ancora lontana perché il regime, con nomi diversi, è ancora presente. L’unico modo per sbarazzarsene è continuando la rivoluzione.
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