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21/10/2014

La Cgil contro il governo, ma che non si sappia in giro

La novità c'è: è la prima manifestazione della Cgil contro il partito-guida.

Diciamo che ci ha messo un po' a rompere la “cinghia di trasmissione”, anche se sarebbe più corretto dire che è stato “il partito” – anzi: il suo nuovo duce da Pontassieve – a distruggerla. Possiamo scherzare sul fatto che le cinghie di trasmissione, ormai, quasi non si usano più neppure nell'automobile, quindi la rottura è arrivata decisamente fuori tempo massimo, persino come metafora.

Ma la novità resta. E in qualche misura cambia lo scenario in cui siamo tutti collocati, chiudendo l'epoca dei “governi amici”, che tanto male hanno fatto al movimento dei lavoratori, alla cosiddetta “sinistra radicale”, e anche agli antagonisti a corrente alternata (“contro” nell'ideologia e nel frasario, “dialettici” se c'era qualcosa da rimediare all'ombra della spesa pubblica, ai confini del “terzo settore” e dei “progetti” finanziati da questo o quell'ente locale).

Renzi è l'icona di un progetto economico-politico che rovescia come un guanto la costituzione materiale e formale del paese. È un disegno reazionario, elitario, autoritario sul piano istituzionale e antipopolare su quello sociale. Tronca come inutili i “corpi intermedi” - partiti, sindacati, associazionismo “politicizzato” - in seguito alla scomparsa della “mediazione sociale”. La crisi ha reso quest'ultima un costo insopportabile per il bilancio pubblico, per il sistema dell'accumulazione, perché la mediazione si fa con le risorse per il welfare (dalle pensioni ai “progetti”, appunto, passando per sanità, istruzione, ammortizzatori sociali, assistenza). E un sistema che non ha più spazio per la mediazione, le cui decisioni sono prese in luoghi sottratti all'influenza del “voto popolare” (Commissione Ue, Bce, Fondo monetario internazionale, “mercati”, ecc.), non ha più bisogno dei canali attraverso cui i “bisogni popolari” venivano filtrati, interpretati, contrattualizzati, trasformati in legislazione compensativa.

Per i sindacati compatibili, istituzionali, consociativi, “complici” (definizione di Maurizio Sacconi, qualche anno fa), è la fine di un ruolo storico. La loro nuova occupazione saranno Caf e patronati, oltre a qualche guardiania aziendale (quel che fanno Fim-Cisl, Uilm e Fismic in Fiat, già oggi). “Ruolo politico” zero.

La Cgil è ancora il “sindacato più grande d'Europa”, per iscritti. Comprensibile che non accetti di scomparire senza dire la propria.

Il problema è che questa volontà di esser preso in considerazione come “soggetto” dal sistema politico – ormai ridotto al solo governo e qualche comprimario – avviene nelle vecchie modalità, come ricerca di una contrattazione, sia pure al ribasso, per la quale non è più previsto alcuno spazio.

Non è senza significato che la Cgil manifesti all'indomani di uno sciopero generale proclamato dall'Usb e alcuni altri sindacati di base. Quello sciopero che la Cgil camussiana non vuole fare nemmeno in punto di morte, per ragioni politiche e culturali che vanno ben al di là delle terribili difficoltà di uno sciopero generale in piena crisi economica, con lavoratori spesso ricattati fino al terrore, sotto la clava del jobs act che cancella tutti i diritti individuali e collettivi (a partire da quello di sciopero, che è il vero motivo dell'abolizione dell'art. 18).

Una manifestazione dunque. Usando tutta la residua capacità organizzativa, per portare “un milione di persone in piazza”. Oggettivamente contro il governo e la sua politica, ma senza dirlo e senza scriverlo, per non aprire un conflitto aperto che non si vuole, che non si può gestire con quelle prospettive, con quegli obiettivi. Come ogni protesta che non individua un “nemico”, dunque, resterà senza effetti.

Per chi come noi è fuori e contro la logica che anima la Cgil degli ultimi trenta anni – il sindacalismo di base, va ricordato, nasce dalla critica militante dei “bulloni” scagliati contro i palchi dei segretari generali – è comunque un termometro della situazione cui va prestata attenzione. Termometro indiretto, a distanza, impreciso e parecchio manipolabile. Ma il sentimento della classe – per usare un termine della finanza globale – sarà avvertibile anche nelle strade che portano a piazza San Giovanni.

Certo, difficilmente ci sarà spazio per la contestazione che si è manifestata con forza a Terni, venerdì scorso. Certo, il funzionariato Cgil userà tutta la sua residua esperienza “militare” per controllare la piazza e gli slogan, gli striscioni e i cartelli.

Ma quel che avverrà nelle strade di Roma andrà comunque analizzato, interpretato in maniera oggettiva, attentamente. Perché i grandi numeri sono sempre un fatto politico. E stavolta non c'è possibilità che quei grandi numeri – al contrario del 2003, al Circo Massimo, contro un governo di destra, apertamente “nemico” – ottengano qualcosa.

È una novità. Che segnerà più i mesi a venire, non tanto i giorni a ridosso del 25. Quella domanda sociale che salirà comunque dalla piazza chiede risposte all'altezza. Lo sciopero generale del 24 è solo un primo tassello, ma per fortuna c'è.

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