22/10/2014
LIBIA. Il governo di Tobruk ordina a Haftar di riprendere Tripoli
Il governo libico di Tobruk – quello dei due riconosciuto legittimo dalla comunità internazionale – ha ordinato ieri all’esercito di lanciare un’offensiva per riprendersi Tripoli e alla popolazione di avviare azioni di disobbedienza civile contro i gruppi islamisti che hanno occupato la capitale. Un’occupazione alla quale è seguita la creazione di un secondo governo, alla fine di agosto, e di un secondo parlamento in contrapposizione a quello guidato dal premier al-Thani e costretto a rifugiarsi a Tobruk. Il secondo esecutivo, guidato dal premier Omar al-Hasi, non disdegna incontri internazionali: ieri ha visto l’inviato turco, primo meeting ufficiale con un rappresentante straniero. In passato gli islamisti avrebbero avuto incontri anche con altri funzionari diplomatici stranieri, tra cui il segretario generale Onu Ban Ki-moon, ma nessuno ha mai ufficializzato il dialogo.
Alla guida dell’esercito governativo c’è ora l’ex generale Khalifa Haftar, autore della crociata contro i gruppi islamisti a Bengasi avviata lo scorso maggio, la cosiddetta “Operazione Dignità”. Il ruolo di guida dell’esercito gli è stato affidato dallo stesso parlamento di Tobruk che lunedì ha stretto un’alleanza strategica con l’esercito irregolare dell’ex generale: “Operazione Dignità sta guidando ufficiali e soldati dell’esercito libico – ha detto il portavoce del parlamento – Operazione Dignità è ora un’operazione dell’esercito libico”.
Una mossa che va nella direzione opposta alla demilitarizzazione delle milizie illegali. Il caos in cui è invischiata la Libia, una guerra civile più o meno palese, è figlia degli effetti distruttivi dell’attacco Nato che depose il colonnello Gheddafi, ma anche della galassia di milizie armate dall’Occidente che non hanno mai voluto deporre le armi. Un paese spaccato, dove tribù, partiti politici e gruppi armati dettano legge dividendosi il territorio e assediando le istituzioni nazionali, debolissime.
Ad annunciare l’operazione per la ripresa di Tripoli è stato il premier al-Thani, con un messaggio su Facebook con il quale dava luce verde all’esercito “per liberare la capitale e le istituzioni dello Stato dalla morsa dei gruppi armati”. Ai residenti chiede di lanciare “una campagna di disobbedienza civile fino all’arrivo dell’esercito e di unirsi alle file militari”.
Il tentativo di riprendersi Tripoli segue a durissimi scontri in corso intorno alla città, a sud e a ovest, dove villaggi e città sono stati devastati dalla battaglia in corso: ieri la città occidentale di Kekla è stata teatro di una dura battaglia tra milizie pro e anti-governative. Secondo il sindaco Meftah, oltre cento persone avrebbero perso la vita, 300 i feriti, dopo gli scontri cominciati l’11 ottobre. Vittime anche a Bengasi: 65 i morti dal 15 ottobre, giorno dell’inizio dell’offensiva governativa per strappare dalle mani islamiste la capitale della Cirenaica.
Nel caos libico sta infilando le mani l’Egitto che la scorsa settimana, seppure non lo abbia ufficializzato, ha bombardato Bengasi durante scontri tra islamisti e milizie di Haftar. Oggi Il Cairo ha lanciato una sorta di ultimatum alle milizie islamiste perché abbandonino gli edifici governativi occupati a Tripoli e permettano il ritorno del governo legittimo di al-Thani. Il ministro degli Esteri egiziano, in un comunicato stampa, ha poi fatto appello all’Onu perché implementi la risoluzione 2174 del Consiglio di Sicurezza che prevede misure punitive contro ogni partito o gruppo che mini la stabilità libica.
Il ruolo di cui il presidente egiziano al-Sisi si è auto-investito rientra nel tentativo di tornare leader regionale, usando come piede di porco la guerra al terrorismo lanciata dagli Stati Uniti. Un modo per rafforzarsi fuori, ma anche dentro il paese, spazzando via definitivamente il principale nemico dell’esercito, di cui al-Sisi è rappresentante: la Fratellanza Musulmana e i gruppi islamisti, target del presidente dal 3 luglio 2013, giorno del colpo di stato contro il presidente Morsi.
La battaglia si gioca su più fronti: in Sinai, dove per combattere e arginare l’avanzata islamista al-Sisi ha ottenuto il sostegno finanziario statunitense e un gruppo di elicotteri Apache; in Libia, dove l’aviazione bombarda le postazioni islamiste a Bengasi; e in casa, dove la repressione dei gruppi islamisti passa per i tribunali.
Ieri una corte egiziana ha condannato a morte sette civili sospettati di essere miliziani di Ansar Beit al-Maqdis, accusati di essere collegati ad attacchi al Cairo a marzo: un attentato contro un bus e sparatorie contro l’esercito, in cui persero la vita nove soldati. Ansar Beit al-Maqdis è un gruppo qaedista, slegatosi alla vecchia rete di Al Qaeda per entrare a far parte dello Stato Islamico di al-Baghdadi, da cui – secondo l’intelligence egiziana – riceverebbe fondi, armi e addestramento.
Inizialmente accusati degli attacchi di marzo erano stati i Fratelli Musulmani. Per al-Sisi fa poca differenza, seppure la Fratellanza abbia partecipato ad elezioni democratiche e sia entrata nel processo decisionale ufficiale.
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