di Chiara Cruciati
Ricapitoliamo, perché
non è così difficile perdersi dalle parti del Medio Oriente. Quattro
anni e mezzo fa, nel 2011, scoppia la guerra civile siriana, manovrata
con maestria da attori regionali e globali. Nel 2013 Obama tenta di
finirla con il vero problema dell’Occidente e degli alleati del Golfo
(il presidente Assad e l’unità del paese braccio dell’asse sciita) e si
prepara all’aggressione militare. La Russia di Putin, con un abile e
fine lavoro diplomatico a cui si aggiungono le preghiere di papa
Francesco, lo ferma in tempo (atto per cui probabilmente il presidente
Usa dovrebbe ringraziare l’avversario).
L’anno dopo compare a Mosul lo Stato Islamico dell’Iraq e del
Levante, l’Isis, che in pochi mesi occupa un terzo dell’Iraq e oltre un
terzo della Siria. O meglio, si espone: perché in Iraq l’Isis
era attivo da anni. Fondato alla fine degli anni Novanta, si trasforma
in Isi nell’ottobre del 2006 e già ad agosto del 2011 invia cellule in
Siria. Insomma, non certo una novità per le intelligence mondiali che
però iniziano a preoccuparsene solo a metà del 2014. Ad agosto
di quell’anno Obama – ufficialmente disgustato dal dramma degli iracheni
yazidi, assediati dagli islamisti a Sinjar – inizia a bombardare le
postazioni Isis in Iraq. E mentre gli yazidi venivano presto dimenticati,
insieme a tre milioni di sfollati interni, poche settimane dopo i jet a
stelle e strisce superavano il confine e andavano a sganciare bombe
anche nella vicina Siria.
La distruzione voluta della Siria, il cuore del Medio
Oriente, paese laico da sempre impegnato nella lotta agli estremisti
islamici (visti da Assad padre e da Assad figlio come diretta
minaccia al nazionalismo siriano e al rigido controllo del paese, tanto
da massacrarne in quantità tra le fila della Fratellanza Musulmana, uno
dei crimini ascrivibili ai governanti siriani), ha provocato in breve
tempo la fuga di massa della popolazione civile, un esodo dai contorni
drammatici: oltre 4 milioni di persone, riparate per lo più nei
paesi vicini, Turchia, Egitto, Giordania. Alcune centinaia di migliaia
hanno preso la rotta dell’Europa, spinti dalla disperazione più totale.
Il resto è cronaca di queste settimane: muri alle frontiere europee,
quote, confusione colpevole tra migranti e profughi, solidarietà di base
contro manganellate della polizia e numeri tatuati sulle braccia.
Quale migliore giustificazione ad un intervento militare,
deve aver pensato il bellicoso Hollande, presidente socialista francese
che in pochi anni ha inviato i suoi aerei da guerra in mezz’Africa?
Bombardare la Siria risolverebbe a monte il problema dei rifugiati, la
stessa patetica scusa del collega britannico Cameron. Che, oggi,
fa sapere di aver compiuto ad agosto un bombardamento in Siria nel
quale hanno perso la vita jihadisti di origine britannica, andando
contro la decisione del suo stesso parlamento che due anni fa bocciò
l’intervento militare in Siria. Così, anche Londra si allarga,
dall’Iraq alla Siria, mentre Parigi annuncia in pompa magna l’inizio
delle operazioni militari, solo aeree e non terrestri (“o si tratterebbe
di un’occupazione”) in chiave anti-Isis.
Solo anti-Isis? No. Di nuovo, il nemico è in realtà un altro e
si chiama Bashar al-Assad. Non è un caso che le decisioni di
partecipare attivamente alla coalizione globale anti-Stato Islamico
giungano a stretto giro dalle dichiarazioni del presidente russo Putin
che, smascherando le mire di Occidente e Golfo, ha pochi giorni fa
aperto alla formazione di una coalizione ampia contro il terrorismo che
da una parte collabori sul piano militare e dall’altra prepari il
terreno alla transizione politica, accettata da Assad sotto forma di
elezioni.
La Russia, insieme all’Iran, non molla Assad non tanto per ragioni di
protezione del popolo siriano quanto per salvaguardare i tanti
interessi strategici, energetici e politici nell’area, semi abbandonata
dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Per quanto non lo ritenga
sicuramente il migliore dei presidenti e per quanto siano innegabili i
crimini commessi, Mosca sa che – nell’assordante silenzio delle
opposizioni moderate – ad oggi è il cavallo su cui puntare, il solo vero
fronte contro l’avanzata islamista – accanto alle forze kurde siriane –
e di smembramento del paese: ad oggi senza sostenere Damasco la lotta all’Isis è solo aria fritta.
Lo è palesemente: ad un anno di distanza dal lancio della coalizione
globale contro il terrorismo (di cui fanno parte paesi che hanno
palesemente sostenuto, direttamente o indirettamente, la crescita
dell’Isis) l’equazione resta la stessa e la forza del califfato non
viene intaccata: i raid si concentrano solo in determinate aree,
quelle non controllate dal governo o dall’esercito siriano. Perché se
si bombardasse l’Isis dove c’è Assad, si darebbe una mano a Damasco e
nella visione occidentale è un’opzione da non prendere nemmeno in
considerazione.
E chi la prende in considerazione, ovvero Mosca, va boicottato. Ieri
un funzionario del ministro degli Esteri greco ha detto che gli Stati
Uniti hanno chiesto ad Atene di chiudere i propri cieli al transito di
aerei russi diretti in Siria. Una notizia che giunge dopo una serie di
voci, pubblicate da agenzie stampa israeliane e britanniche, secondo cui
la Russia starebbe organizzando l’invio di propri soldati sul campo di
battaglia siriano. Mosca ha finora sempre negato, definendo
“prematuro” un intervento sul terreno e ricordando che il paese da tempo
rifornisce Damasco di equipaggiamento militare nella lotta al
terrorismo di matrice islamista.
Sembra così aprirsi un fronte più ampio, che mostra con chiarezza
come il campo di battaglia mediorientale sia in realtà globale. Il
confronto tra Russia e Stati Uniti è sempre più palese, giocato da
Mosca a livello diplomatico, mostrandosi – come fa da tempo l’Iran –
come negoziatore realista, offrendo transizioni politiche concrete e
collaborazioni militari anti-Isis, una piattaforma che
presenterà ufficialmente questo mese all’Assemblea Generale delle
Nazioni Unite. Ma la realtà è un’altra, perché l’obiettivo è un altro:
Washington, Ankara, Riyadh, Parigi e Londra vogliono la testa di Assad,
non quella del “califfo” al-Baghdadi.
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