Nel 2003, la scrittrice statunitense Susan Sontag si interrogò, nel libro Davanti al dolore degli altri, su come la continua riproposizione di immagini di atrocità sui media influenzasse e condizionasse le nostre opinioni, i nostri valori, il nostro sostegno o la nostra opposizione a guerre e «interventi umanitari». Un libricino scritto quando Facebook ancora non esisteva e i social networks erano pressoché sconosciuti ai più, ma ricco di spunti che ci sembrano molto attuali alla luce degli avvenimenti delle ultime settimane. Qual è stata, infatti, l’influenza della riproposizione dell’immagine del cadavere di Aylan, il bambino curdo siriano affogato durante un disperato tentativo di attraversare il lembo di mare che avrebbe condotto lui e la sua famiglia a Kos (Grecia) e trovato morto sulla spiaggia turca di Bodrum? In quale modo la commozione che ha suscitato nell’intero pianeta ha condizionato i sentimenti e le opinioni rispetto all’immigrazione, la risposta dei governi europei e, in un gioco di rimandi, l’immagine che di se stessi offrono al mondo?
La commozione suscitata dall’immagine di Aylan ha spinto la Germania a sospendere il patto «Dublino III» – che prevede che la richiesta di asilo vada fatta nel primo paese in cui si arriva – e di garantire protezione internazionale e accoglienza ai profughi provenienti dalla Siria e, in misura minore, da Afghanistan e Irak. Sulle motivazioni strutturali di questa decisione, quelle inerenti il mercato del lavoro interno e l’interesse verso una manodopera «più istruita» e quindi più qualificata, già abbiamo cominciato a riflettere, ma segnaliamo anche un articolo di Alessandro Avvisato su Contropiano: lo stesso Dieter Zetsche, presidente della Daimler (Mercedes), ha annunciato che l’azienda avrebbe mandato i suoi esperti nei centri di raccolta dei migranti, alla ricerca di professionalità «idonee ad occupare quei posti di lavoro che il mercato tedesco ormai non è più in grado di occupare. La maggior parte dei migranti sono giovani, molto ben istruiti e altamente motivati, esattamente ciò di cui il nostro Gruppo ha bisogno. I migranti possono svolgere quel ruolo che negli anni sessanta, dopo l’erezione del muro di Berlino, spettò ai cosiddetti Gastarbeiter, italiani e turchi in particolare» (leggi).
Accanto ai fattori strutturali, tuttavia, possiamo evidenziare anche alcune motivazioni propagandistiche, che mirano a un recupero delle simpatie nei confronti dell’Unione europea, della Germania e di Angela Merkel, profondamente minate, nei mesi scorsi, dalla vicenda greca. In poche ore, così, si è passati dalla riproposizione virale dell’immagine della bandiera dell’Unione europea con le stelle sostituite dai corpi senza vita delle vittime dei naufragi che galleggiano nel blu del mare a quella, altrettanto virale, delle colonne di rifugiati in marcia con in testa le bandiere dell’Ue. Anche in questo contesto, tra le immagini più pompate dai media, quelle di bambini come Aylan, questa volta vivi e avvolti dalle bandiere dell’Ue.
È necessario, quindi, riflettere sull’uso propagandistico delle immagini all’interno di quella che, efficacemente, viene definita come «società dello spettacolo»: come ha scritto Sontag, le fotografie delle vittime (delle guerre, ma anche dell’immigrazione), «sono anch’esse una sorta di retorica. Reiterano. Semplificano. Scuotono. Creano l’illusione del consenso» (p. 9). Le immagini, del resto, sono sempre state utilizzate come strumenti di propaganda dotati di una grandissima forza: siano state esse dei probabili falsi (come la foto del miliziano della guerra civile spagnola scattata da Robert Capa), delle «ricostruzioni» inscenate a uso e consumo dei fotografi (l’innalzamento della bandiera sovietica sul Reichstag in una Berlino in fiamme o di quella statunitense sull’isola giapponese di Iwo Jima) o degli scatti spontanei (come la più nota immagine della guerra del Vietnam, quella rappresentante alcuni bambini bruciati dal napalm appena sganciato dagli statunitensi che fuggono gridando di dolore dal villaggio colpito).
Questa riflessione è ancora più fondamentale quando queste rappresentazioni hanno al centro dei bambini, soggetti che suscitano sempre una forte commozione (basti pensare agli occhioni di quelli africani affamati riprodotte da varie organizzazioni, per lo più cattoliche, per chiedere soldi in beneficenza), e le cui immagini sono state storicamente utilizzate per gettare discredito sul nemico di turno. Gli esempi sono numerosi: la citata icona della guerra del Vietnam, ma anche la foto del bambino del ghetto di Varsavia che alza le mani davanti a un soldato tedesco che punta il mitra contro di lui, diventata uno dei simboli della Shoah, o il fatto che, durante la guerra nei Balcani, le stesse immagini di bambini morti nei bombardamenti di alcuni villaggi furono utilizzate tanto dai serbi quanto dai croati. Come ha evidenziato Domenico Losurdo in un capitolo di La sinistra assente. Crisi, società dello spettacolo, guerra, si tratta di quell’attività che in un libro sulla prima guerra del Golfo è stata descritta come «selling babies», cioè «reclamizzare i bambini».
L’utilizzo acritico di queste immagini non può che essere pericoloso: abituare le persone a commuoversi a comando – in base all’eterno principio per cui una morte è una tragedia e un milione di morti è statistica – e a basare le proprie opinioni sulle reazioni «di pancia» scatenate da immagini dure e commoventi, infatti, è un’arma che può essere utilizzata con efficacia solo da chi detiene il controllo e il monopolio dei media. Cioè dalle borghesie imperialiste occidentali. Come è stato scritto,
l’icona è un’immagine fotogiornalistica la cui diffusione […] è del tutto strumentale al discorso politico […] che l’accompagna e che è volto a ottenere il consenso della società. […] Infatti, ogni volta che si parla di icona, bisognerebbe introdurre i termini di una relazione a tre, asimmetrica e piramidale, tra politica, comunicazione e opinione pubblica. Sarebbe a dire che le istituzioni usano i moderni mezzi di comunicazione di massa per influenzare le opinioni dei cittadini. Ora, è assodato che la fotografia sia un linguaggio mediale le cui potenzialità espressive e comunicative furono colte dalle élite politiche fin dal suo nascere. [A. Curcio, Le icone di Hiroshima. Fotografie, storia e memoria, Roma 2011, pp. 40-41]Veniamo, dunque, alla riproposizione ossessiva dell’immagine del cadavere del piccolo Aylan, che ad esempio il «Manifesto» ha pubblicato in prima pagina con la toccante didascalia «Niente asilo». Essa si è trasformata in una vera e propria «icona della modernità», in una di quelle foto che «una volta apparse sui quotidiani o nelle riviste a corredo di una notizia di cronaca, acquisiscono una immediata eco, imponendosi in maniera ossessiva e pervasiva nel campo della comunicazione globalmente intesa» (A. Curcio, Le icone di Hiroshima, p. 15). Il discorso su questo tipo di immagini, quindi, non può ignorare i loro sottintesi usi sociali e politici.
La riproposizione dell’immagine di Aylan era stata preceduta dalla diffusione sui social networks di un collage di foto di bambini morti in uno dei naufragi di questa estate a largo delle coste libiche, mentre attraversavano il Mediterraneo: l’immagine, per quanto toccante, non aveva però ancora quella forza evocativa necessaria a bucare lo schermo. Ce l’aveva, invece, quella di Aylan: sia sufficiente pensare al rosso della sua maglietta che – a livello più o meno inconscio – richiama la bambina col cappottino rosso del film Schindler’s list. Se ciò è vero per gli spettatori di tutto il mondo, soprattutto dopo che per settimane si è più o meno esplicitamente paragonata la tragedia dell’immigrazione con quella dell’Olocausto (attraverso i frequenti riferimenti, nella canonica reductio ad Hitlerum, ai treni affollati o attraverso l’attenzione prestata al fatto che la Repubblica Ceca avesse scritto – «marchiato» – sul braccio degli immigrati un numero corrispondente al loro numero di arrivo), lo è tanto più per i tedeschi, tra i quali il senso di colpa per la Shoah è un sentimento di massa.
La vicenda di Aylan, inoltre, assurgendo a icona è stata totalmente decontestualizzata e depoliticizzata. La contemporanea morte di sua madre e di suo fratello sono state ridotte a dettagli (perché non fissate da un’immagine fotografica), ma soprattutto si è quasi cancellato il fatto che il bambino fosse sì siriano, ma curdo, proveniente da Kobane (leggi), e che lui e la sua famiglia stessero fuggendo alla guerra scatenata dall’Isis, foraggiato dallo stesso governo turco che reprime e perseguita i militanti di sinistra e – seguito a ruota dai media e dai politici occidentali – descrive i curdi del Pkk, che allo stato islamico si oppongono, come terroristi. Questo silenzio è ancora più assordante alla luce del fatto che, invece, gli stessi media occidentali – e italiani in primis – rappresentano spesso i rifugiati siriani come «ribelli» anti-Assad, che giungono in Europa in cerca della libertà, come dimostra una delle «foto simbolo» di questa estate, quella del «ribelle» Laith Al Saleh (leggi e leggi), uno dei profughi sbarcato a Kos: concentrarsi su di essi, evidentemente, appare più utile per l’Ue in vista di un intervento sul fronte siriano che, a fronte delle notizie delle ultime ore, non sembra così improbabile.
È significativo, quindi, che il dibattito intorno alla fotografia di Aylan si sia polarizzato, escludendo qualche rara eccezione, intorno a due posizioni che fanno riferimento a una pietas umanitaria di retaggio cattolico – pubblicarla, per smuovere le coscienze (pietas per i migranti ancora vivi, che non devono fare la stessa fine del piccolo curdo); oppure non pubblicarla per non strumentalizzare la morte, per rispetto per il bambino deceduto e per il dolore dei suoi famigliari, perché troppo shockante o perché oltrepassa i limiti del buon gusto e del «tollerabile» (pietas verso i morti, e verso la morte) – e a una che, invece, fa riferimento alla destra becera, leghista e neofascista, rappresentata da personaggi come Maurizio Blondet, che hanno ipotizzato che l’immagine sia un falso. Questi ultimi, infatti, percependo che la forza di quelle immagini colpisce così intimamente l’emotività delle persone da scalfire le retoriche xenofobe e razziste che presentano gli immigrati come un pericolo – per la sicurezza, per la salute, per la possibilità di trovare lavoro – da respingere, non possono far altro che negare l’autenticità dell’immagine stessa.
Tutte e tre le posizioni, evidentemente, sono meramente propagandistiche e non tentano nemmeno un’analisi del fenomeno migratorio e dei veri responsabili delle tragedie in atto: tra essi, ovviamente, la stessa Merkel, rappresentata invece come una salvatrice sui cartelli dei profughi siriani e impegnata, negli ultimi giorni, in visite quotidiane ai centri di accoglienza. Ugualmente propagandistiche e non analitiche – ma anche francamente ingenue – ci appaiono poi quelle riflessioni che rispondono alle accuse di falso definendole una «bufala»: oltre a non tenere in considerazione che fattori come la scelta delle luci e dell’inquadratura («inquadrare», del resto, vuol dire «escludere») e la stessa soggettività del fotografo rendono impossibile definire un’immagine come «vera» o «autentica», infatti, esse si spostano sul piano del «complotto sì» e «complotto no», ignorando invece il tema, ben più importante, dell’uso di quelle immagini.
Ovviamente non siamo di fronte a un complotto, né di un effetto emotivo programmato a tavolino dalla Germania. L’immagine del piccolo Aylan non è un falso. Ma, come ha fatto notare nel già citato articolo su Contropiano Alessandro Avvisato – in termini non solo riconducibili all’affaire fotografia – , «quando ha gli strumenti per farlo, un sistema di potere può volgere a proprio vantaggio anche fenomeni non previsti». L’immagine giusta al momento giusto ha così consentito di prendere in mano le redini della propaganda mediatica intorno al tema dell’emigrazione: e di trarne tutti i vantaggi possibili.
Oltre a essi, si possono poi evidenziare altri aspetti non secondari dell’ondata emotiva suscitata dall’immagine di Aylan: primo tra tutti, l’appiattimento della questione immigrazione sui rifugiati. Ciò è evidente dalla continua riproposizione, in questi giorni, dello slogan «Refugees welcome»: ma perché solo i «rifugiati» – che costituiscono una quota non maggioritaria degli immigrati che giungono in Occidente (in Italia, circa 60mila l’anno) – sono benvenuti, da accogliere persino nelle proprie case (leggi)? E gli altri, i cosiddetti immigrati per ragioni economiche, ugualmente vittime dello sfruttamento e delle politiche imperialiste di Ue, Nato e dei paesi occidentali? E quando le richieste di protezione internazionale vengono rifiutate (in Italia, avviene per circa la metà) – costringendoli al rimpatrio o alla clandestinità – i «non più rifugiati» sono ancora «benvenuti»? Non sarebbe più intelligente adottare lo slogan «Migrants welcome»? Non è pericoloso avallare queste distinzioni di «merito» tra gli immigrati, discernendo tra quelli benvenuti e quelli un po’ meno benvenuti e prestando così il fianco a una nuova «guerra tra poveri» (o, meglio, tra poverissimi, tra disperati)? Non è deleterio avallare un nuovo dualismo nel mercato del lavoro immigrato (che si somma a quello tra migranti e autoctoni), per cui i rifugiati medio-colti e qualificati sono benvenuti mentre gli altri costituiscono l’esercito industriale di riserva da sfruttare fino allo stremo e da ricacciare indietro ed espellere quando non servono più? Perché la situazione di Ventimiglia (che ci riguarda molto più da vicino rispetto ai profughi siriani) sembra ormai dimenticata, per non parlare di quella di Calais? Forse che l’appiattimento sui rifugiati costituisca uno strumento di distrazione e di gerarchizzazione anche sulla questione dei migranti?
Come ben evidenziato in un bell’articolo da Ferruccio Gambino (leggi), a livello propagandistico, infatti, l’attenzione mediatica sui profughi siriani ha oscurato totalmente il fenomeno migratorio proveniente dalle coste africane, di gran lunga più rilevante:
Nei primi otto mesi di questo 2015 si sono contati 310mila profughi in arrivo dalla sponda sud alla sponda nord del Mediterraneo; di questi, circa 200mila sono riparati in Grecia e 100mila in Italia, i due paesi della cosiddetta prima accoglienza. Nello stesso periodo i morti e i dispersi nella traversata del Mediterraneo sono almeno 2.800, per la maggior parte africani, fra cui non si contano, ad esempio, i giovani finiti sulle lame dei muri eretti dal governo spagnolo a Ceuta e Melilla. […] Di colpo, il governo Merkel scopre la questione dei profughi siriani e sospende […] quel notorio sbarramento che è dettato dal patto «Dublino III» dell’Unione europea […]. Negli stessi giorni, al largo della Libia continuano ad affogare africani sulle carrette del mare (26.8), mentre in Austria si scoprono più di 70 profughi abbandonati e soffocati nel container di un Tir (27.8). In Italia, in un sol giorno sono circa in mille a sbarcare (28.8); tra di loro si contano quattro morti, di cui due bambine di cui non vengono diffuse le fotografie. […] Per contro, sei giorni dopo fa il giro del mondo la fotografia del cadavere di un bambino siriano sulla spiaggia turca di Bodrum […]. Tutti i mezzi di comunicazione dell’Unione europea sono mobilitati a dare il massimo risalto alla notizia e a discutere della fotografia, mentre il Mediterraneo occidentale viene mediaticamente oscurato. [...] In breve, l’inquietante oscillazione emotiva provocata prima dal lungo immobilismo e poi dalla repentina decisione del governo tedesco a favore dell’accoglienza dei siriani – e propagata a onda dai media al resto dell’Unione europea – lascia presagire ulteriori e gravi manipolazioni dell’opinione pubblica per il futuro in tema di migrazioni. [...] Quasi tutti hanno dimenticato che il problema enorme e cruciale di oggi e dei prossimi decenni non è la pur drammatica condizione dei siriani nella tormenta della guerra, bensì il tragico potenziale migratorio in provenienza dalla dimenticata Africa. Da una parte la politica guerrafondaia delle monarchie del Golfo in Libia (oltre che in Iraq, Siria e Yemen), dall’altra la xenofobia diffusa globalmente contro gli africani stanno operando alacremente per l’avanzata della barbarie. Attualmente si contano a decine le città africane […] dove il mercato delle armi è l’unico fiorente e dove si spara quotidianamente per le strade, dove le stragi sono moneta corrente – e da dove si tenta di fuggire, senza che il resto del mondo intenda rendersene conto.L’attenzione mediatica sui rifugiati, tutta incentrata sulla pietà, assume inoltre tratti grotteschi, alla luce del fatto che gli stessi media per tutto luglio ci avevano bersagliato con notizie sulla «gente comune» (in realtà, organizzazioni neofasciste) che si opponeva con violenza ai centri di accoglienza per i richiedenti asilo e i profughi, come nel caso di Casale San Nicola (leggi): se in un mese essi si sono trasformati da persone «pericolose», pigre e lavative a cui imporre il lavoro gratuito, a «buoni» a cui dare il benvenuto (persino Salvini, colui che esaltava la scelta ungherese di costruire il muro per fermare il viaggio dei profughi, il leader degli organizzatori dei pogrom contro i richiedenti asilo, sull’onda della commozione generale non ha potuto esimersi dal dirsi disponibile a ospitare un profugo a casa sua), dovremmo addrizzare le antenne.
Degna di una riflessione più vasta sarebbe, poi, l’organizzazione delle manifestazioni «degli uomini e delle donne scalzi»: al di là della domanda che sorge più spontanea (perché «scalzi»? Non si esprime così un’immagine pietistica ed eurocentrica degli immigrati?), non si può fare a meno di notare tra i primi firmatari dell’appello i nomi di sostenitori delle politiche dell’Ue e di Israele, come Roberto Saviano, Gad Lerner, Lucia Annunziata. Non certo degli alfieri dell’antimperialismo, dunque, ma i complici e i pifferai delle politiche che dei flussi migratori stanno alla base.
L’attenzione unica sulla questione dei rifugiati si mostra sempre più pericolosa e banalizzante, rimuovendo ogni tentativo di analisi e di individuazione delle responsabilità politiche. È facile – soprattutto per lo «spettatore» che ha ormai sostituito il «cittadino» – commuoversi per la morte tragica di un bambino. Più difficile, invece, è contestualizzare la sua morte in un’analisi socio-economica delle cause che hanno costretto lui e la sua famiglia all’emigrazione. Più difficile è provare la stessa partecipazione emotiva per le sorti degli immigrati adulti, magari di quelli che sono costretti alla clandestinità, a una vita di sfruttamento e di emarginazione, che vivono nelle baracche ai margini delle strade che percorriamo ogni giorno, che magari sono arrestati per qualche piccolo reato: eppure sono ingranaggi della stessa dinamica, vittime delle stesse catene formate dagli anelli dello sfruttamento economico e dell’imperialismo (ovviamente inteso non solo nei suoi aspetti immediatamente militari e colonialistici, ma in primo luogo come appropriazione sistematica di valore a livello internazionale).
Come abbiamo scritto nello scorso aprile, con la questione dei migranti ci confronteremo per gli anni a venire. Non ci possiamo permettere, quindi, posizioni frettolose, superficiali o dettate dall’emotività e da un umanitarismo di stampo cattolico: dobbiamo, in questo senso, riaffermare l’analisi della realtà contro la propaganda, ribadendo che il fenomeno migratorio è il diretto prodotto dell’ingerenza occidentale in Africa e in Medio Oriente, attraverso “interventi umanitari” e operazioni di “peace keeping” o “peace enforcing”, che hanno dissolto stati sovrani (Somalia, Yemen, Libia, Siria, Irak, Mali). Gli stessi profughi siriani sono il prodotto di quattro anni di guerra civile diretta e finanziata dall’estero, in particolare dagli Stati Uniti, dall’Arabia Saudita (paese verso cui la Germania esporta, tra l’altro, moltissime armi) e dalla Turchia.
È evidente che l’indignazione e la compassione non bastino a dettare una linea di condotta: le emozioni sono astoriche, non hanno un presente o un passato, non richiedono né incoraggiano analisi politiche o contestualizzazioni. Come illustravamo in un post di qualche settimana fa a partire da alcune riflessioni di Domenico Losurdo, anzi, la produzione artificiale dell’indignazione e il suo governo costruiscono uno strumento di politica, interna e internazionale: sono, dunque, le armi del nemico.
Al di là della commozione del momento – destinata a essere repentinamente sostituita da quella suscitata da qualche altro evento – non dovremmo dimenticare che non possiamo comprendere gli avvenimenti se ci limitiamo al piano sovrastrutturale, alle emozioni o alla pietà cristiana: l’immigrazione è conseguenza e causa di sfruttamento e all’interno dell’Unione europea non ci sono spazi per politiche umanitarie che esulino da esso. La Germania e l’Unione europea, strumentalizzando l’immagine di Aylan, hanno preso i classici due piccioni con una fava: forza lavoro necessaria e a basso costo da un lato, nuove simpatie e ritorno in auge – anche nella cosiddetta sinistra radicale! – dell’idea dell’«Europa sociale dei popoli» dall’altro. Una strumentalizzazione che, quindi, ha giocato un ruolo di primo piano in un’«operazione simpatia» che ha rafforzato l’Unione europea e il ruolo egemonico della Germania al suo interno: emblematici il canto dell’Inno alla gioia, l’inno dell’Ue, e le grida «Germania, Germania» con cui i profughi sono stati accolti in alcune stazioni tedesche (leggi).
Ciò ha fatto passare in secondo piano, ancora una volta, che nessuna speranza si può e si deve riporre nei governi europei e che le battaglie per garantire una vita dignitosa ai migranti o sono lotte di classe e lotte contro l’imperialismo – accanto a essi, nel centro e nella periferia, al di là di ogni paternalismo eurocentrico – o sono destinate al fallimento.
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