Neanche il tempo di passare al vaglio della Corte Costituzionale (o
forse proprio grazie alla soffiata di qualche giudice costituzionale
amico), e già l’Italicum è in via di superamento. Il dibattito
intorno alla futura legge elettorale è però esemplare, racchiude cioè
nel suo piccolo la scomparsa della sinistra dalla politica generale. E’
infatti un dibattito in cui apparentemente ci si scanna tra acerrimi nemici,
ma nessuna delle proposte di revisione si avvicina a quella che
dovrebbe essere una legge elettorale “di sinistra”, cioè democratica
nella sostanza e non solo nel chiacchiericcio neoliberale quotidiano. Le
varie proposte appaiono tutte interne ad un sistema di valori
neoliberale fondato sul sacro principio della “governabilità”, bene
supremo a cui tutti i ragionamenti dovrebbero ricondursi. L’Italicum, come dovremmo ormai sapere, è una legge altamente distorsiva, nonostante sia, in teoria, una legge elettorale proporzionale. Questo
smonta il primo e principale artificio retorico del ceto liberale in
guerra contro ogni ipotesi di proporzionalità tra voti espressi ed
eletti in parlamento. Secondo Angelo Panebianco (Corriere della Sera del 28 settembre), “i
fautori del No alla riforma costituzionale si stanno schierando a
favore di un sistema elettorale proporzionale. A suo modo è una cosa
lodevole. E’ giusto infatti che chi sia a favore della conservazione
costituzionale, della conservazione della Costituzione così come essa è,
sia anche un nostalgico del ritorno al proporzionale”. Il povero
Panebianco, accecato dall’odio ideologico, non si accorge che in Italia
si vota già alle elezioni politiche con il sistema elettorale
proporzionale, quantomeno dalla soppressione del Mattarellum avvenuta
nel 2005. Sono undici anni che esiste un sistema proporzionale, spurio e
altamente distorsivo perché pesantemente corretto da premi di
maggioranza e soglie di sbarramento, ma tant’è, e l’Italicum in
questo senso non corregge la natura proporzionale della legge, ma si
limita (per così dire) a distorcere ulteriormente la proporzionalità tra
voti ed eletti introducendo un secondo turno che deciderà tramite un
ballottaggio chi andrà al governo.
Un altro cliché ideologico è quello che relaziona i sistemi
elettorali proporzionali ai cosiddetti “governi deboli”, favorendo un
sillogismo assolutamente artificioso e non comprovato nella realtà.
Sempre Panebianco, ambasciatore dell’ideologia neoliberale governista,
traccia un bignami dei luoghi comuni di questi anni: “la
proporzionale completava e sorreggeva un sistema parlamentare congegnato
in modo da favorire la formazione di quei governi deboli, a loro volta
indispensabili in una democrazia difficile nella quale nessuno poteva
fidarsi di nessuno. La proporzionale aveva il compito di non permettere
esclusioni rilevanti dal gioco politico, e di assicurare anche
all’opposizione capacità di pressione e di influenza sul comportamento
dei governi[…]Vincesse il No nel referendum di dicembre, la spinta a
reintrodurre la proporzionale diventerebbe probabilmente irresistibile”.
Ora, a parte ricordare nuovamente che l’Italicum è già una legge proporzionale, che supera la “legge Calderoli” che già era una legge proporzionale, sarebbe ora di riflettere anche su questo falso mito liberista dei presunti governi deboli prodotti dalla legge proporzionale.
Dal 1946 al 1981 l’Italia è stata governata da Primi ministri di un
unico partito, e dal 1945 al 1993 governata di fatto da un unico
partito, la Democrazia cristiana, come socio di maggioranza alleato di
volta in volta ad altri piccoli e meno piccoli partiti. In sostanza, per
quasi cinquant’anni il paese è stato governato da un’unica direzione
politica. Allo stesso tempo, quello stesso governo e quella stessa legge
elettorale hanno impedito per cinquant’anni di alternarsi al potere con
l’opposizione elettoralmente più rilevante, il Pci. Definire questo
come periodo di “instabilità politica” istituzionale, e derivare questa
presunta instabilità dalla legge elettorale, è quantomeno fantasioso.
Attraverso quale relazione con la legge elettorale può definirsi un
sistema politico governato per cinquant’anni da un unico partito, con
l’opposizione formata da un partito impossibilitato a governare, come
“sistema instabile”? E’ infatti fuffa neoliberale, ideologia
post-moderna, la stessa che prova a descrivere l’Italia come un paese
“governato dalle sinistre” per decenni. I problemi di stabilità, che
pure evidentemente esistevano, derivavano dalla natura intrinseca del
partito al potere (cioè dai suoi scontri interni); dalle spinte sociali
fortissime presenti nel corpo della nazione e che si riverberavano di
conseguenza (e fortunatamente) sul piano dei rapporti politici di
governo; dalla natura instabile delle relazioni internazionali
condizionate dallo scontro est-ovest; ma non dalla legge elettorale. Tanto per dire, in Germania, che ha visto dal 1949 ad oggi alternarsi solamente nove Cancellieri federali, vige un sistema elettorale proporzionale puro, corretto
da una forte soglia di sbarramento al 5% valida per tutti i partiti. Il
sistema proporzionale, in altre parole, non c’entra nulla con la
“stabilità governativa”, posto che questa sia un valore in sé e non il
prodotto della dialettica politica nel suo complesso, quindi non solo di
palazzo ma nella società nel suo insieme. Non avendo argomenti
razionali, l’apogeo dell’invettiva di Panebianco scomoda anche il debito
pubblico: “è difficile negare che la proporzionale abbia
contribuito, soprattutto negli anni Ottanta dello scorso secolo, alla
lievitazione di quel grande debito pubblico che ci trasciniamo ancora
dietro”. Fantasia al potere.
Eppure il discorso sulla legge elettorale è importante e direttamente
collegato con la riforma costituzionale, perché è altresì vero che i
due sistemi viaggiano di pari passo. La legge elettorale è, in altri
termini, una delle concretizzazione della più complessa architettura
costituzionale che un paese si dà. Non possono essere in contraddizione
plateale l’una con l’altra. Ma allora, quale dovrebbe essere la legge
elettorale migliore, ovviamente da un punto di vista di classe?
Come molti altri ragionamenti, anche quello sulla rappresentanza
istituzionale si è andato perdendo per strada, una volta sancito
unilateralmente che “sinistra” e “rappresentanza” non dovevano avere più
niente a che fare, anzi, che “rappresentanza” fosse di per sé un
concetto di destra. Il risultato di questo ripiego storico è sotto gli
occhi di tutti: la rappresentanza rimane un concetto ineludibile, e
l’aver abbandonato il campo non ha eliminato il problema, ma lo ha
consegnato unicamente all’interno del recinto borghese entro cui vengono
escogitate le soluzioni più varie, magari opposte, ma tutte accomunate
dall’essere contro ogni ipotesi di rappresentanza popolare.
Chiaramente il concetto stesso di rappresentanza non si esaurisce nei
meccanismi formali e istituzionali di cui stiamo qui parlando, ma
altrettanto chiaramente questi sono una delle articolazioni del
discorso. Se è sbagliato concentrarsi troppo sui formalismi, altrettanto
insufficiente è nasconderseli sperando intimamente di non doverci mai
avere niente a che fare. E per una sinistra aliena al potere e alle sue
logiche, disinteressata alla gestione generale della società, è naturale
non avere gran ché da dire in merito. La storia però va avanti
ugualmente, e soprattutto, in assenza di quella stessa sinistra,
peggiora costantemente. Ecco perché anche su questo piano sarebbe utile
sviluppare un dibattito e avere proposte credibili da fare.
In assenza di questo dibattito esistono però alcuni punti fermi che
vanno riaffermati con forza, anche nella battaglia referendaria, e che
concernono direttamente la caratterizzazione sociale del NO al
referendum renziano. Anzitutto, ribadendo che il potere risiede nel
Parlamento, e non nel Governo. E’ il Parlamento che elegge il Governo,
non è quest’ultimo che viene eletto direttamente tramite le elezioni.
Questo determina che ogni possibile “governabilità” passa dal
rafforzamento dei poteri parlamentari a scapito di quelli governativi.
Da ciò, ne consegue che il Parlamento dev’essere espressione, la più
fedele possibile, dei rapporti di forza politici presenti nella società.
In altri termini, nel Parlamento dovrebbe essere rappresentata
fedelmente la reale composizione politica della società. Questo è
possibile solamente tramite una legge elettorale proporzionale pura,
senza soglie di sbarramento – o quantomeno con soglie molto basse,
nell’ordine dell’1% – e, soprattutto, senza premi di maggioranza
distorsivi il risultato elettorale e dunque la volontà del corpo
elettorale. Oltretutto, i candidati dovrebbero essere espressione della
dialettica interna alle organizzazioni politiche che rappresentano. In
altre parole, gli eletti dovrebbero essere scelti attraverso una
selezione politica interna ai diversi partiti, non tramite le famigerate
“preferenze”, sistema individualista post-politico fondato sul censo
che ha prodotto i potentati locali basati sulla forza economica dei
singoli candidati, slegati da ogni processo politico collettivo che non
sia il rapporto diretto con gli elettori creato e mantenuto dalla forza
economica personale di cui sopra. E’ il partito che elegge il candidato,
non il “popolo”, che viene a conoscenza unicamente di quei candidati
che possono permettersi una visibilità tale da pubblicizzare la propria
presenza nel mercato elettorale.
In questa fase una proposta del genere è semplicemente inammissibile,
perché alla base della discussione sulla riforma costituzionale e sulla
legge elettorale è posto un enorme non-detto che nasconde i reali
interessi in campo. Detto altrimenti, il combinato tra riforma della
Costituzione e Italicum serve e preparare la svolta
presidenzialista prevista per il nostro paese, che segue la traccia
indicata dall’Unione europea del processo di esecutivizzazione della
politica. Il problema non è il Senato delle regioni, qualche decina di
parlamentari o senatori in meno, l’abolizione del Cnel o delle
Provincie, o la “distorsione” elettorale generata dall’attuale legge
elettorale. Il problema è preparare il terreno per quella che una volta
si sarebbe definita “svolta gollista”, la soppressione di fatto del
Parlamento come luogo deputato all’azione legislativa e di indirizzo
politico del paese, e alla rappresentanza dei reali rapporti di forza
politici presenti nel paese.
La Francia torna peraltro utile per un paragone diretto. Da più parti
si individua il sistema francese come esempio virtuoso di
governabilità. In realtà, per dirla con le parole di D’Alema, “la
Francia è il paese meno governabile d’Europa” (questo oggi che il maiale
è impegnato nella battaglia referendaria per il NO; anni fa, al
contrario, individuava nel sistema francese il miglior modello possibile per l’Italia).
A parte il partito vincente le elezioni, tutti gli altri sono
notevolmente sottorappresentati, producendo così uno stallo
dell’attività politica e legislativa aggirato dai poteri presidenziali
del Presidente, che però si scontra perennemente col fatto di essere
minoranza nel paese e tra le forze politiche. Ora, ci potrà pure far
piacere che il Front National sia di fatto escluso dal Parlamento, ma
una forza che viaggia costantemente tra il 15 e il 25% dei voti continua
ad avere due (2) eletti in Parlamento, una sproporzione aberrante che
infatti non genere alcuna fantomatica “governabilità”, ma solo
l’impossibilità di decidere alcunché di politicamente concreto. Per
dire, alle ultime elezioni il “Parti radical de gauche”, con l’1,65% dei
voti ha raccolto 12 deputati; il Front National, col 13,60%, 2
deputati. Meglio così, potremmo concludere, ma da una lettura più
profonda non può che sorgere una domanda: può definirsi ancora
“democrazia” un sistema così platealmente distorsivo della volontà
pubblica? Secondo noi, no.
Per tornare alle cose italiane, allora, l’unica possibilità di
garantirsi la sacra “governabilità” è tornare allo spirito della
Costituzione, legare cioè le sorti del Governo alla forza del
Parlamento. E’ tramite la dialettica parlamentare, che significa il
confronto e lo scontro con le diverse anime politiche espresse dal corpo
elettorale, che viene deciso chi dovrà governare e soprattutto *come*
dovrà governare, se cioè concedendo più a sinistra o più a destra, più
alle forze del lavoro o più a quelle del capitale, e così via. Questo
però, in regime controllato dalla Ue, non è pensabile, perché un
Parlamento veramente rappresentativo le tendenze politiche generali
impedirebbe alle forze attualmente al Governo di governare assecondando i
vincoli esterni. A quel punto l’ingovernabilità la farebbe da padrona, e
tutto il meccanismo incepperebbe il processo europeista di svuotamento
dei poteri nazionali rappresentativi in favore dei poteri sovranazionali
non rappresentativi. Questa è la radice di ogni possibile discorso “di
sinistra” riguardo alla legge elettorale. Ogni altra fantasia prodotta
dal potere neoliberale, di “destra” come di “sinistra”, è fumo negli
occhi, arma di distrazione di massa ad uso e consumo di un ceto politico
completamente scollegato da qualsiasi volontà elettorale e/o popolare.
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