03/01/2017
Gennaio ’47, nasce l’Italia “atlantica”
Il 3 Gennaio 1947, un venerdì di settant’anni fa, il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi passò una notte inquieta. Era disteso su una cuccetta di un aereo, il quadrimotore Skymaster, diretto da Roma a Washington.
Dal 9 al 13 Gennaio 1947, ancora in quel mese fatidico di settant’anni fa si svolge all’Università la Sapienza di Roma il XXV congresso del PSIUP. Si fronteggiano due linee. Nenni che sostiene la collaborazione con il PCI e una scelta neutralista in politica estera. Saragat che propone una linea di autonomia dal Pci e posizioni filoatlantiche.
A distanza di pochi giorni due avvenimenti politici di fondamentale importanza per la storia d’Italia, un passaggio decisivo, un insieme di scelte che rappresenteranno per il nostro Paese un punto di non ritorno per molti versi sulla strada della ricostruzione post – bellica e della conformazione del nostro sistema politico.
Vale la pena, pur a distanza di tanto tempo, di rievocare quei momenti cercando di sviluppare un abbozzo di ricostruzione storica e di analisi politica.
Tra l’autunno del 1946 e l’inverno ’47 la situazione politica e sociale italiana si fece sempre più tesa.
Le elezioni amministrative svoltesi nella maggiori città tra ottobre e novembre registrarono una bassa affluenza alle urne, dimostrando che la spinta partecipativa apparsa imponente nell’occasione del referendum e delle elezioni per l’Assemblea Costituente si stava esaurendo.
La Dc arretrò sensibilmente e avanzarono i qualunquisti, in particolare al Sud.
I comunisti mantennero le percentuali raccolte a giugno, mentre persero voti i socialisti.
Il Paese si trovava in grave difficoltà economica e la DC stava subendo la pressione della Chiesa, contraria al mantenimento dell’alleanza di governo con i social comunisti (il Papa stesso, Pio XII, affrontò il tema nel suo discorso natalizio del 1946, tenuto dal balcone di Piazza San Pietro).
In questo clima difficile avvenne il viaggio di De Gasperi negli USA.
Nel novembre del 1946 era maturata l’iniziativa di invitare De Gasperi negli USA, per colloqui politici al massimo livello: iniziativa che si sovrappose all’invito privato rivolto al presidente del consiglio italiano dal Forum di Cleveland, organizzato dalla rivista “Time”.
Che l’Italia stesse diventando più importante agli occhi di Truman risultò anche dal fatto che in quelle settimane fu accelerata la decisione di inviare a Roma come nuovo ambasciatore l’influente diplomatico James C. Dunn, già direttore dell’Ufficio affari europei del Dipartimento di Stato.
Organizzata dall’ambasciatore Tarchiani la missione fu intesa come una misura difensiva, piuttosto che come una mossa offensiva mirante alla rapida eliminazione della sinistra.
De Gasperi (su questo punto in sintonia con la Segreteria di Stato vaticana) aveva individuato da tempo negli Stati Uniti il riferimento internazionale determinante per la ricostruzione democratica in senso moderato del Paese.
Nell’amministrazione USA, invece, rispetto all’Italia si ravvisava ancora, in quel momento, un clima di incertezza, soprattutto in relazione alla strategia di potenza che era necessario si definisse nel confronto sempre più aspro sorto con l’Unione Sovietica e al processo di sostituzione nella presenza dell’impero britannico nel bacino del Mediterraneo.
Per di più la visita di De Gasperi negli USA coincise con la sostituzione al dipartimento di Stato di Byrnes, esponente della corrente più accondiscendente verso l’URSS, con il generale Marshall il quale puntava sulla tendenza al “confronto duro” con i sovietici.
De Gasperi com’è noto ottenne un prestito di 100 milioni di dollari: considerate le condizioni dell’Italia poco più di un fatto simbolico come rimarcò subito Einaudi, ma di grande significato sul piano politico.
Per lo stesso De Gasperi il risultato più importante ottenuto con questo viaggio fu sicuramente quello di essersi finalmente presentato come il riferimento politico italiano più affidabile, due mesi prima dell’affermazione della “dottrina Truman”, con cui gli USA decidevano di aiutare i paesi cosiddetti “liberi” di fronte a ogni pericolo di derivazione sovietica.
De Gasperi aveva così posto le basi di una relazione che avrebbe favorito, tra le altre condizioni, l’allargamento del consenso verso la DC, intesa come partito cattolico, moderato, inserito nel contesto occidentale rintuzzando le possibilità di crisi verticale che proprio il risultato elettorale delle amministrative di novembre aveva fatto presagire.
Il viaggio americano rafforzò, inoltre, in De Gasperi la convinzione circa la firma del trattato di pace, come poi avvenne il 10 Febbraio del 1947 a Parigi.
De Gasperi percepì indubbiamente qualcosa sui tempi e sui modi del riassestamento della politica estera americana e mise in chiaro come la sua determinazione e quella della DC fosse di impedire al PCI di “portare l’Italia nell’orbita di influenza russa”.
Nello stesso tempo però non affermò che i tempi della cooperazione antifascista erano finiti, ma si può pensare – a distanza di tanti anni – che vi fosse su questo punto una tacita convergenza con i vertici USA.
Le novità della fase internazionale chiedevano dei mutamenti di rotta e la DC si trovava in una scomoda posizione nella coalizione di governo: un nodo che sarebbe stato sciolto nel maggio successivo.
Nel frattempo precipitava la crisi socialista.
La decisione di Saragat di rompere l’unità del partito si dispiegò nel congresso tenuto a Roma, presso l’Università “La Sapienza”, tra il 9 e il 13 Gennaio (De Gasperi si trovava ancora negli USA, rientrò il 20 Gennaio).
Nell’ambito del congresso, dopo varie schermaglie tattiche, la corrente riformista di Critica Sociale e i giovani rivoluzionari di Iniziativa Riformista, insofferenti allo stalinismo di Basso e di Lizzadri ma soprattutto dell’apparato burocratico, lasciarono la sede congressuale riunendosi in sede separata a Palazzo Barberini.
In quella sede fu fondato il nuovo Partito socialista dei lavoratori italiani (PSLI) che acquisì più di un terzo dei deputati socialisti alla Costituente.
Sia Saragat sia soprattutto i giovani intendevano costituire una forza socialista marxista, ispirata all’ipotesi di una “terza forza” europea tra i blocchi, non certo un partito moderato: anche se le divisioni al loro interno non mancavano.
La preoccupazione degli osservatori americani era però soprattutto rivolta alla scarsa adesione di sindacalisti al nuovo partito.
La divisione del movimento socialista italiano era ormai cosa fatta e lo spazio “terza forzista” si rivelò subito come effimero.
Al suo ritorno in Italia De Gasperi aprì la crisi di governo: gli americani furono informati del fatto che era possibile una rottura tra i democristiani da una parte e socialisti e comunisti dall’altra.
Ciò non avvenne, il ministero si ricostituì come tripartito DC – PCI – PSI (i socialisti avevano ripreso, concluso il congresso, la vecchia denominazione mentre i socialdemocratici ne stettero fuori).
Questo governo si fece carico dell’ingrato compito di firmare il trattato di pace, nonostante le divisioni interne alla DC (Scelba si pronunciò per negare la firma, appoggiato da Gonella e da altri ministri).
La crisi definitiva si verificò nel Maggio e l’alleanza antifascista a livello di governo cessò definitivamente di esistere, mentre proseguirono i lavori dell’Assemblea Costituente che alla fine avrebbe elaborato un testo costituzionale condiviso.
La spaccatura del fronte antifascista italiano maturò prima di tutto per motivi interni, anche se incombeva il clima della “guerra fredda” ed ebbe l’esito di far introiettare alla DC una parte del consenso conservatore e anche reazionario diffuso nel Paese.
Il risultato più importante di quella fase convulsa fu comunque quello dell’approvazione della Carta Costituzionale che avvenne nonostante la divisione derivante dalla crisi di governo.
La Costituzione fu il frutto di un accordo (molto di più di un compromesso, scrive Guido Formigoni nella “Storia della politica estera italiana nella guerra fredda, e si può ben condividere questo giudizio) tra cattolici, socialisti, comunisti, non senza il contributo delle minoranze liberali.
Si trattò di una Costituzione progressista, ispirata al modello del Welfare State lanciato dai laburisti con le elezioni inglesi del 1945, che offriva da subito (nonostante le difficoltà e i ritardi nell’applicazione di alcune parti molto importanti) una sorta di orientamento e di vincolo per la politica nazionale, al di là degli esiti elettorali.
Una Costituzione che abbiamo appena affermato come valida con il grande successo nel referendum del 4 Dicembre 2016.
In quel momento nel 1947 si stavano comunque creando in Italia le condizioni perché la spaccatura tra i “due mondi” avrebbe sì avuto una grande influenza sul sistema politico ma avrebbe rappresentato soltanto una cornice per le nuove fratture che si stavano presentando aprendo la strada a una ricerca di diverse linee di passaggio e di intreccio nel rapporto fra le forze politiche.
Il PCI con la DC principale soggetto nella situazione italiana posto al centro della divisione del quadro mondiale, riuscì nel compito di definire una propria rappresentanza “nazionale” sulla base di tre elementi costitutivi che debbono essere ricordati: l’autonomia teorica (e non semplicemente tattica) dal modello sovietico, il primato della politica sull’economia senza alcuna visione meccanicistica in questo senso, l’assunzione della concezione gramsciana del rapporto tra struttura e sovrastruttura, la sovrapposizione del partito alla classe attraverso l’intuizione del “partito nuovo” e del modello di integrazione di massa.
Il sistema elettorale proporzionale (che sarebbe stato confermato sia pure di stretta misura con le elezioni del 1953) avrebbe ancora consentito, nonostante la “conventio ad excludendum”, un concerto e un confronto (sia pure aspro e a tratti drammatico) sui temi della ricostruzione del Paese negli anni a venire.
Un risultato complessivo da non trascurare e svilire nell’analisi storico – politica di quella fase convulsa.
Per elaborare questo testo sono stati consultati: AA.VV. ”Storia dell’Italia Repubblicana, primo volume “La costruzione della democrazia” Einaudi Editore, Torino 1997; Guido Formigoni “Storia dell’Italia nella guerra fredda (1943 – 1978) Il Mulino, Bologna 2016
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