Il Meclis inizia oggi il secondo turno di consultazioni per approvare le modifiche costituzionali. Secondo le scadenze dettate dal partito di governo dovrebbe farlo in tre giorni con la disamina quotidiana di sei articoli del pacchetto innovativo. Le previsioni dicono che tutto andrà come nella prima fase, magari evitando quelle risse stigmatizzate da ogni parte ma fomentate da entrambi i blocchi contrapposti, soprattutto repubblicani e governativi. Se i voti segneranno maggioranze relative, superiori ai 330 ma al di sotto dei 367 consensi si passerà al vaglio delle urne con un referendum popolare che dovrà approvare o respingere la riforma. Le date della consultazione potrebbero oscillare dal 25 marzo al 2 aprile o poco più. I commenti che circolano sulla stampa turca, purgata e in buona parte controllata dall’Akp, prospettano scenari favorevoli all’approvazione del sistema presidenziale che pone, con tanto d’ufficialità legislativa, il Capo di Stato su quella scena mondiale dominata da politici decisionisti. Gli esempi non mancano. Dallo statunitense Trump che s’insedia nelle prossime ore alla Casa Bianca, al russo Putin, cui Erdoğan va legandosi in un equilibrio d’interessi. E poi Xi Jinping in Cina, Modi in India, Duterte nelle Filippine, la stessa Merkel in Germania, ciascuno con modalità differenti stabilisce però il realismo decisionista che segna l’attuale politica mondiale. In realtà Erdoğan è da tempo in questo Gotha, ma con quest’investitura il prestigio salirebbe alle stelle.
Ciò che può preoccupare, oltre ai superpoteri consegnati per via istituzionale come accade al presidenzialismo turco, è l’ipotesi in cui qualche ‘personaggio forte’ faccia prevalere un prurito muscolare sul desiderio di dialogo e collaborazione. In politica estera può accadere meno facilmente, seppure i panorami siriano e iracheno smentiscono quest’affermazione. Ovviamente lì agisce un soggetto, l’Isis, per nulla propenso a dialoghi e accordi. Sul terreno interno le situazioni possono risultare diverse e le smanie della politica tranciante, specie se giustificate dalla necessità di sicurezza, possono imboccare vie di repressione cieca. Proprio dalla Turchia in queste ore giunge la notizia che ben centoquarantadue anni di carcere possono essere richiesti per Selahattin Demirtaş e ottantatre per Figen Yüksekdağ dal procuratore che ha in mano il processo ai due leader del Partito democratico dei popoli (tuttora ai domiciliari). Fra le accuse ci sono quelle di “gestione di un’organizzazione terroristica”, “realizzazione di propaganda terrorista”, “incitamento della popolazione alla violenza e all’odio”, “elogio al crimine e ai criminali” che nella somma delle accuse possono produrre una sentenza che va dai 43 ai 142 anni di reclusione per il co-segretario. Mentre su Yüksekdağ pende una pena compresa fra i 30 e gli ottantre anni. Il quadro repressivo interno che colpisce indiscriminatamente ogni opposizione, compresi i ruoli istituzionali e parlamentari come quelli rivestiti dai deputati dell’Hdp, sembra destinato a incancrenirsi ed essere ulteriormente rafforzato da svolte accentratrici e personalistiche insite nel presidenzialismo. Per non parlare del bavaglio a informazione e libera espressione, denunciata da intellettuali e dai cronisti ancora in libertà. Ieri la cortina calata sul Paese ha toccato una storica penna del New York Times Rod Nordland, respinto all’aeroporto di Istanbul per “ragioni di sicurezza”.
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