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12/02/2017

La strategia USA per Palestina e Israele: colonie si, ma con moderazione

di Michele Giorgio

«Non penso che andare avanti con gli insediamenti sia un bene per la pace». Questa frase, estrapolata dall’intervista a Donald Trump pubblicata ieri dal giornale filo governativo israeliano Israel HaYom, ha spinto più di un commentatore a definirla una seconda frenata degli Usa alla colonizzazione israeliana, a pochi giorni dall’incontro alla Casa Bianca tra il tycoon e il primo ministro israeliano Netanyahu, dopo quella di inizio mese fatta dal portavoce della Casa Bianca.

È in realtà solo un nuovo pacato invito a Israele a non esagerare con le colonie. Per non limitare le possibilità della nuova Amministrazione di mettere in piedi qualche forma di trattativa finalizzata a un accordo comunque vantaggioso per Israele.

«No, non voglio condannare Israele – ha poi affermato Trump – ha una lunga storia di condanne e di difficoltà. Capisco Israele molto bene e l’apprezzo perché ne ha passate tante». Al di là di questo, ha aggiunto il presidente Usa, «vorrei vedere la pace, penso che sarebbe una buona cosa per il popolo israeliano, non solo una buona cosa, una grande cosa».

Sul trasferimento dell’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme, Trump ha risposto: «Ci sto pensando. Sto studiando la questione e vedremo cosa accadrà. Non è una decisione facile. E’ stata discussa già da anni. Nessuno ha voluto realizzarla, io ci penso in maniera molto seria». Poi è tornato sull’accordo con l’Iran definendolo «un disastro per Israele».

Infine sull’incontro alla Casa Bianca ha detto che Netanyahu «è una buona persona e l’ho sempre avuto in simpatia».

A conti fatti siamo di fronte alla posizione espressa dal nuovo presidente americano durante la campagna elettorale, messa in una forma più ordinata, nel quadro di una strategia complessiva che, forse, sarà definita proprio durante il faccia a faccia con Netanyahu.

Trump ha sempre detto di voler coordinare la strategia di Usa e Israele e per questa ragione risulta più interessante un’altra frase dell’intervista. Il tycoon afferma di «volere la pace in Medio Oriente, forse sarà possibile una pace più vasta e non solo una pace israelo-palestinese».

L’Amministrazione Usa pensa, come Netanyahu, che per risolvere la questione palestinese e definire lo “status permanente” dei Territori occupati occorra coinvolgere quella parte di mondo arabo sunnita che dietro le quinte si è avvicinato a Israele? I segnali portano in quella direzione.

A promuoverla, spiegava qualche giorno fa il New York Times, è Jared Kushner, genero del presidente, nominato inviato speciale americano per il Medio Oriente. Kushner ha già avuto negli Usa colloqui con rappresentanti delle monarchie del Golfo, tra i quali l’influente ambasciatore emiratino Yusef al Otaiba.

E lo stesso presidente ha parlato con due leader che con ogni probabilità saranno i suoi principali interlocutori arabi in Medio Oriente: re Salman dell’Arabia Saudita e il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi. Sono loro per Trump e la sua amministrazione di falchi, la chiave per arrivare a una soluzione per la questione palestinese limitando al minimo il coinvolgimento dei palestinesi?

È solo una ipotesi ma aiuta a spiegare la decisione del Dipartimento di stato di non avviare ancora alcun contatto con la leadership politica palestinese per privilegiare i contatti con arabi e israeliani.

L’unico rappresentante ufficiale dell’Autorità nazionale palestinese ricevuto negli Usa, da quando Trump è presidente, è stato, qualche giorno fa, Majd Faraj, capo dell’intelligence palestinese che ha incontrato funzionari dei servizi di sicurezza americani. Un meeting che probabilmente ha avuto lo scopo di garantire la continuazione del flusso di aiuti finanziari americani all’Anp di Abu Mazen in cambio dell’assicurazione che i servizi palestinesi proseguiranno la cooperazione di sicurezza con Israele in Cisgiordania.

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