Sconfitti duramente, tra referendum e sentenza della Consulta. Ma sempre all’attacco per scardinare il sistema istituzionale e imporre un’autorità centrale forte, non condizionabile dal basso (dalla popolazione e dai suoi bisogni), ma pronta a rendere operative le indicazioni dell’Unione Europea e/o della Nato.
Roberto D’Alimonte è notoriamente il “padre” intellettuale della legge elettorale chiamata Italicum e una persona normale si aspetterebbe di vederlo ritirato in un eremo a meditare su quanti errori abbia compiuto, insieme a Renzi & co., fino ad assaporare il gusto sabbioso della sconfitta.
E invece no. Eccolo sempre lì ad “osservare” gli andamenti della politichetta italiana e a suggerire golpetti, forzature, escamotage, furbizie di corto respiro, pur di attingere l’agognata “governabilità”. Le preoccupazioni per "il destino del paese" sono in questo caso materia buona solo per lo storytelling...
Ieri, su IlSole24Ore, ha provato a spiegare perché sarebbe meglio che le elezioni politiche anticipate avvenissero a giugno. In pratica, ha messo in prosa articolata ciò che Renzi affida alle battutine pro-tv e ai maneggi interni al vertice del Pd. Tema: dalle urne uscirà sicuramente un papocchio di rappresentanza politica completamente sfrangiato, grazie al “proporzionale” residuato dalla mutilazione dell’Italicum. Fare un governo che escluda i Cinque Stelle – programmaticamente votati al rifiuto di qualsiasi alleanza – non sarà semplice, visto che il previsto inciucio tra Renzi e Berlusconi non sarà probabilmente sufficiente a raggiungere una maggioranza. Sarà complicato ma non impossibile imbarcare Salvini e Meloni, al momento lepenisti di complemento, in questo modo complicando l'altrettanto non impossibile concorso di buona parte della “sinistrina” che si va aggregando intorno ai D’Alema-Bersani-Scotto-Fratoianni.
L’esperienza insegna che, conquistata la cadrega da parlamentare, possono cominciare le grandi campagne acquisti per rappattumare una maggioranza, pescando tra i tanti aspiranti “responsabili”. Ma per far questo ci vuole tempo. E le scadenze europee – quelle che hanno l’assoluta priorità su tutto – sono alquanto rigide. Ad aprile andrà approvato dal Parlamento un Documento di economia e finanza (Def) – base di partenza della legge di stabilità da approvare entro la fine dell’anno – che metterà in cantiere una manovra da almeno 20 miliardi; da finanziare tutta con tagli alla spesa pubblica, privatizzazioni e aumento delle tasse (incombe quello dell’Iva, temporaneamente congelato). Votare la fiducia a questo governo su questo punto potrebbe diventare problematico per la già scarsa credibilità della pattuglia "progressista". E questo potrebbe facilitare la caduta di Gentiloni in aprile (non se ne accorgerebbe nessuno, lì per lì...).
Votare in settembre è fortemente sconsigliato – da D’Alimonte – perché i tempi lunghi della formazione di un governo proporzionale – si arriverebbe a fine ottobre-inizio novembre – impedirebbero di rispettare le scadenze di presentazione di una legge di stabilità alquanto complicata. Peggio ancora sarebbe andare alle urne in febbraio, alla scadenza naturale della legislatura, perché – con una “finanziaria lacrime e sangue” alle spalle – per i partiti della coazione governativa attuale sarebbe una caporetto, consegnando il paese ai Cinque Stelle (temuti più per l’incompetenza che per la radicalità, da quelle parti).
Dunque, tanto vale andarci subito. E questo spiega la fretta dei renziani nell’espellere i vecchi tromboni diessini, nell’indire primarie “aperte” entro i prossimi 40 giorni, in modo da arrivare a giugno – l’11, in questa prospettiva, assommando amministrative e politiche – con un segretario “nuovo” sufficientemente saldo in sella.
Le complicazioni non mancano. E sono tutte interne alla banda che si è distribuita per il momento le poltrone dei ministeri. Su di loro incombe infatti il principale diktat dell’Unione Europea. Che non è tanto il trovare 3,4 miliardi per fare la “manovra correttiva” entro aprile, ma il come garantire alla Ue quelle privatizzazioni che solo in teoria dovrebbero ridurre il debito pubblico (dopo venti anni di privatizzazioni e di aumento del debito è davvero il minimo dubitare che il giochino possa riuscire). Anche perché da privatizzare è rimasto ben poco: le Ferrovie e (già alla seconda tranche) le Poste. Ossia due asset fondamentali che hanno pesanti ricadute sociali. Le Ferrovie infatti dovrebbero vendere la parte pregiata – le Frecce – e tenersi il resto, con buona pace di pendolari e treni “normali” a lunga percorrenza, considerati poco redditizi. Le Poste, invece, raccolgono i risparmi di milioni di persone con pochi spiccioli (pensionati, in primo luogo), che però nell’insieme sono cifre da capogiro (398 miliardi di attività, quasi il 25% del Pil, secondo l’ultimo bilancio); peraltro già allocate dalla Cassa depositi e prestiti. Ovvero una banca pubblica con un'operatività in parte simile ormai a quella di una banca d'affari (partecipa o acquisisce società).
Gli appetiti degli squali intorno a queste due prede sono ovviamente enormi, e non mancano resistenze anche all’interno del governo e dello stesso schieramento renziano. Al punto che le divisioni sul tema privatizzazioni attraversano ormai ogni gruppo parlamentare, per quanto piccolo e sbrindellato sia. Un primo risultato, non buono per i renziani, è lo spostamento della data delle "primarie" Pd dal 9 al 30 aprile. Appena venti giorni di differenza, ma bastano per mandare in soffitta le elezioni a giugno...
Sarebbe dunque bene guardare alla vicenda “elezioni anticipate” avendo presente questo quadro, anziché le dichiarazioni usa-e-getta di piccoli politici usa-e-getta.
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