Il caso Hekmatyar è emblematico non solo per la vociferata amnistia di cui dovrebbe godere uno dei più noti warlord mediorientali, da più parti accusato di crimini contro l’umanità, ma per il suo ingresso con tutti gli onori nel quadro istituzionale del Paese. Certo la strada dell’oblìo verso le nefandezze del recente passato della storia afghana aveva già avuto precedenti, seppure meno illustri, con l’amministrazione Karzai. Anni addietro alcuni signori della guerra come Khalili e Fahim erano stati perdonati ed elevati al rango di vicepresidenti, Sayyaf medesimo era, ed è, presente nella Loya Jirga. I criminali Rabbani e Massud furono il primo presidente, l’altro osannato come eroe. In quest’ottica, dunque, non ci sono state sostanziali trasformazioni da trent’anni a questa parte; l’ultimo esempio è Dostum, vicepresidente in carica, voluto da Ghani. Ultimamente il generale buono per ogni stagione è un po’ in difficoltà per storie di stupri compiuti da alcune sue guardie del corpo verso donne uzbeke di clan rivali ed è stato invitato dal presidente a farsi da parte. Non è detto che obbedirà, perché i suoi kalashnikov hanno un peso nei conciliaboli. Ghani lo sa: l’ha coptato per questa qualità. I boss della guerriglia hanno fatto da padroni e sono rimasti sulla breccia anche grazie alle continue ingerenze esterne nel territorio afghano compiute prima dai sovietici poi dalla Nato. Tantoché i mujaheddin, e ora i taliban, battono e ribattono sul tasto della resistenza allo straniero per sostenere le proprie azioni armate e fare proseliti fra una popolazione stremata e confusa.
Eppure le narrazioni mainstream sull’Afghanistan – magari non tutte ma quelle filogovernative sì – si sono basate su informazioni di comodo finalizzate ad avallare il disegno statunitense di esportazione di “democrazia”. Le presidenze post talebane di Karzai e Ghani, eletti e rieletti grazie a brogli elettorali, non hanno pacificato la vita interna, né migliorato le condizioni sociali, sperperando i fondi della comunità internazionale con speculazioni gestite da potentati locali, molti dei quali sono per l’appunto signori della guerra, trasformati caso per caso in signori degli affari. Quelle narrazioni non dicono che costoro occupano posti di potere e con la propria violenza e il fondamentalismo ideologico impediscono il processo di trasformazione promesso con tanto di convention e assisi organizzate per il mondo dal governo locale e dai protettori occidentali. L’inserimento istituzionale di Hekmatyar, che potrebbe fare il pontiere con la componente talebana dialogante, s’accompagna a un avvicinamento della diarchia Ghani-Abdullah al partito Hezb-e Islami, utile al piano di pacificazione. Dallo scorso autunno questo partito ha ripreso una meticolosa propaganda nelle aree dov’è storicamente radicato (Herat, Kunduz) e, chi ne segue da anni il percorso politico, pensa che giocherà con l’attuale governo uno scambio su due questioni: prigionieri e rifugiati. Tuttora un pezzo della militanza combattente di Hezb è carcerata. Secondo l’agenzia Onu che su quei territori elabora statistiche (Unama) una parte di costoro è computata come talebani. Sarebbero oltre cinquemila combattenti.
I rifugiati sono in maggioranza raccolti nel campo di Peshawar, sfuggono però a ogni censimento. Possono essere migliaia o decine di migliaia, mancano dati certi. Si conosce, invece, la presa che sulla popolazione hanno alcuni personaggi: il comandante Sarwar Faryadi, rientrato tempo addietro da oltre un decennio di carcerazione in Gran Bretagna, venne accolto con festeggiamenti all’aeroporto di Kabul. Quella struttura è controllata giorno e notte dall’Army National Afghan Forces, l’esercito che da sei anni gli Stati Uniti finanziano e addestrano con scarsissimi risultati, che in quel caso non ha mosso un dito per impedire le manifestazioni di giubilo. I corteggiamenti rivolti all’Hezb-e Islami non sono nuovi. Nel 2005 Karzai, da poco presidente, ammise il partito d’impianto fondamentalista sulla scena politica e promosse un suo membro, Hadi Arghandiwal, a ministro dell’economia. Karzai sosteneva che tale corrente fosse diversa dall’antico gruppo dell’Hezb restato fedele a Hekmatyar e alle sue smanie stragiste verso taluni gruppi etnici, gli hazara su tutti. Invece il partito islamista appare unito e durante l’anno passato, quando il piano di pacificazione è diventato di pubblico dominio, Arghandiwal ha in più circostanze dichiarato come Kekmatyar sia l’emiro del gruppo con cui vorrà lavorare. Altre entità fondamentaliste: l’Hezb-e Muttahed-e Islami-ye Afghanistan e l’Alliance of Hezb-e Islami Councils, anziché competere fra loro sono orientate a una collaborazione col gruppo storico di Hekmatyar.
Da notare che la prima delle due sigle è registrata nell’Afghanistan “democratico” della missione Isaf dal 2006 e tutte hanno ondeggiato fra Karzai e Ghani, quando costoro si facevano paladini della lotta al fondamentalismo. Perciò i posizionamenti delle fazioni islamiste radicali, in vicinanza o appoggio al governo, sono avvenuti ben prima del progetto di pacificazione che coinvolge Hekmatyar. Accadeva per ragioni di potere, per ricavarne vantaggi e benefici personali e di clan, per business nelle varie province. Ora si pensa di utilizzare la sua figura bonificandola dalle macchie criminali, che non son poche, e puntando sulla mitologia che circola attorno al suo passato. Ricordi indubbiamente funerei che possono, comunque, avere la capacità di congelare e controllare i comportamenti di altri signori della guerra, seppure col trascorrere del tempo la categoria ne abbia perso più d’uno. L’impatto di real politik che questo leader può imprimere può tornar sempre vantaggioso, sempre che età e salute lo sorreggano. Con lui, storico elemento del primo Jihad afghano contro l’invasione del Paese, si riunirebbero tessere restate finora frammentarie: controllo militare di alcune province, rapporto con l’intellighenzia islamica interna ed estera, presenza nelle istituzioni. Fattori utili per cercare d’attrarre giovani leve che sono i veri mattoni di cui ha bisogno il movimento islamista per la costruzione dell’Emirato d’Afghanistan. Entità che può risultare un’altra versione di quella inseguita dai talebani. O magari la stessa.
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