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20/02/2017

Psicanalisi del muro

Il muro di Trump mi ha portato ad alcune riflessioni più generali. Di muri ce ne sono già molti: in Algeria, Marocco, Spagna, Palestina, India, Thailandia, Arabia Saudita, Botswana, Emirati Arabi Uniti, Irlanda. Uzbekistan, Corea, Pakistan, Cipro eccetera. 

In gran parte sono opere militari per proteggersi da incursioni di gruppi terroristici (come in Marocco contro il Fronte Polisario o in Israele*) o di eserciti regolari (come nella parte turca di Cipro), ma sempre più numerosi sono quelli pensati in funzione anti immigrati. E’ interessante notare che in quasi nessun caso il muro ha raggiunto i risultati auspicati, per cui, dopo una fase iniziale di successo, quasi sempre il risultato si è rivelato molto al di sotto delle aspettative.

Eppure altri muri o altro tipo di barriere, sono in costruzione, come ad esempio in Ungheria, o al confine italo francese, o se ne auspica la costruzione come in Austria. Ed ora Trump ne vuole un altro fra Usa e Messico, dove, per la verità, un muro c’è già dal 1994, quando lo volle il Presidente Clinton, democratico. Ma dunque, se si sente l’esigenza di un nuovo muro è perché il precedente non ha funzionato. Forse non era abbastanza alto, spesso, lungo o forse aveva troppi buchi.

Di qui la mia idea di parlare della “politica dei muri” considerando il fenomeno più da lontano, senza riferimento a nessun caso particolare e soffermandoci sul suo valore simbolico. Alla base c’è un meccanismo psicologico elementare: il muro è la materializzazione dello “spazio sicuro” in cui muoversi, la divisione fra un “interno” sicuro, amichevole e protettivo ed un “esterno” ostile e pericoloso.

Per dirla con Jhon Steiner si tratta di un classico rifugio della mente contro l’angoscia.

Adriano Voltolin, nel suo “”Il rifugio e la prigione” (Mimesis 2013) cita l’esempio dell’“uccellino nel guscio che ha tutto quello che gli serve per vivere senza uscire dalla sua protezione ed altri casi in cui il paziente sogna (o, nei casi più gravi, spera) di poter vivere in una bolla in sospensione che lo isoli dal “fuori”; ad esempio, il bambino che disegna un autobus subacqueo perfettamente a tenuta stagna, che ha come unico contatto con l’esterno il tubo di scappamento, trasparente simbolizzazione del defecare, dell’espellere verso il caotico “fuori” i propri scarti per ridurre il grado interno di entropia.

Psicologicamente, si tratta di una regressione nell’utero materno, una vita fuori del tempo e dell’ambiente, al riparo dagli agguati della vita stessa. A volte questo è vissuto come una prigione, e comporta sofferenza, ma una sofferenza inferiore all’angoscia dell’affrontare i pericoli del fuori.

Questa esigenza di demarcare il dentro dal fuori, con una barriera fisica imponente ha trovato la sua massima espressione in campo militare, che ha avuto da sempre il muro come esaltazione del “vantaggio del difensore”. Basti citare il vallo Adriano fra Britannia e Caledonia, quello Traiano in Romania, quello germano-retico, per non citare l’esempio più celebre della Grande Muraglia. Per la verità, dopo un certo periodo di efficacia, queste imponenti costruzioni non impedirono il crollo dell’Impero Romano ed il prevalere dei “barbari”. Anche in Cina la muraglia non riuscì ad impedire le scorrerie delle “genti del Nord” ed ebbe un ruolo culturale e simbolico nella costruzione di un “noi”, particolarmente in epoca Han.

Né, per la verità, ebbero migliori risultati le fortezze medievali, soprattutto dopo la comparsa delle armi da fuoco. Eppure il “mito” del grande argine murario, come difesa assoluta, proseguì ad intermittenza. Ma, già Napoleone (poi seguito da Clausewitz) avvertì che la parte che si rinchiude nelle sue fortificazioni è destinata a perdere la guerra.

Non che le fortificazioni siano in assoluto inutili, ma sono la difesa più debole che si possa immaginare, perché sono fisse e artificiali e, in quanto tali, costose, adatte solo alla fase della guerra di posizione ma sono di impaccio quando si passi all’offensiva. E, soprattutto hanno una efficacia limitata nel tempo. Infatti, l’avversario prenderà facilmente conoscenza della “ grande muraglia” e studierà piani di sfondamento, scavalcamento o aggiramento di essa, rendendola via via meno efficace. In teoria, questo richiederebbe un costante aggiornamento dello schema difensivo (posto che si riesca a capire o immaginare quale possa essere la strategia che il nemico stia maturando). Ma una linea di mura, fossati, casematte o castelli non si può spostare, e costruirne di nuove comporta tempi lunghi e costi salatissimi. Per cui, quanto più una strategia si basi su difese fisse (e quelle naturali sarebbero preferibili, non fosse altro che per i costi) tanto più questo obbligherà a condotte di guerra poco dinamiche e facilmente prevedibili. In una parola, perdenti.

Sin dai primi dell’ottocento questo fu chiaro e, infatti, il pensiero militare superò lo schema delle fortificazioni, preferendo la guerra manovrata, come era stato proprio dell’esperienza napoleonica e, prima ancora, di Raimondo Montecuccoli. Ma lo schema della guerra di posizione e logoramento, tornò agli onori del pensiero militare grazie alla triade trincea – filo spinato – mitragliatrice della prima guerra mondiale. E, infatti, subito dopo di essa, si tornò alla costruzione di lunghe linee difensive fortificate: i Francesi costruirono la linea Maginot (facilmente aggirata dai Panzer di Guderian nel 1940), i Sovietici la linea Molotov e linea Stalin, gli Yugoslavi la linea Rupnik, tutte travolte dalle offensive tedesche.

Nè ebbero migliore fortuna le analoghe difese tedesche della linea Sigfrido, vallo Mediterraneo, vallo Atlantico, vallo Orientale, tutte soccombenti di fronte alle armate alleate o sovietiche. Di fronte all’attacco congiunto di carri ed aerei, le barriere fisse ebbero solo (e non sempre) il risultato di guadagnare qualche tempo e costare all’avversario un po’ più di sangue, ma in compenso furono spesso ragione di errori strategici. Ad esempio i francesi ne fecero due: dal settembre 1939 al maggio 1940, quando restarono tranquilli dietro le loro fortificazioni, non approfittando del momento migliore per colpire (quando i tedeschi erano sbilanciati sul fianco est) e proprio perché valutarono troppo dispendioso attaccare la linea Sigfrid e immaginarono che fosse più vantaggioso che fossero i tedeschi a schiantarsi sulla linea Maginot. Il secondo errore venne nel maggio 1940, quando il capo di stato maggiore francese Maurice Gamelin, sentendosi sicuro dietro la linea Maginot e la foresta delle Ardenne, sbilanciò l’esercito francese a nord, mentre i tedeschi sfondarono attraverso le Ardenne e aggirarono la linea, trovando pochissima resistenza. Errori simili furono poi fatti dai sovietici fra il 1940 ed il giugno 1941. Come si vede, le linee difensive su insediamenti fissi favoriscono spesso piani strategici scarsamente adattabili a situazioni diverse dal previsto. Peraltro è interessante osservare anche l’effetto sulla popolazione: nel caso di ampie barriere fisse, inevitabilmente la propaganda ne vanterà l’insespugnabilità (anche per far digerire il loro costo all’opinione pubblica), e questo verrà facilmente creduto, ma, quando poi il fronte cade, questo ha un effetto moltiplicatore nel crollo della resistenza psicologica della popolazione.

In ogni caso, gli scarsi risultati ottenuti con questo tipo di difesa determinò il tramonto dei muri militari. E infatti, dal 1945 agli anni novanta non sorsero fortificazioni fisse, salvo eccezioni particolari come Cipro o la Corea.

La rinascita dei muri, paradossalmente, venne al tempo della globalizzazione, ma non più per fermare offensive militari, quanto come contrasto a terrorismo ed immigrazione (e qualche volta le due cose sono presentate come se l’una contenesse necessariamente l’altra). E la cosa appare ancor meno efficace che nel caso di barriere contro eserciti, proprio perché i terroristi si muovono in piccolissimi gruppi che scavalcano le barriere sbarcando da un aereo con visto turistico o arrivando in forme regolarissime, come lavoratori o come studenti.

Mentre gli immigrati si muovono spesso in gruppi più nutriti e vistosi, ma pur sempre imparagonabili ad un esercito in movimento, per cui trovano spesso forme di aggiramento, magari con l’ausilio di organizzazioni della malavita, attraverso sbarchi clandestini o valichi di montagna poco sorvegliati o linee ferroviarie di frontalieri. Di fatto è impossibile blindare qualsiasi confine e, se spesso leggiamo di gruppi di clandestini bloccati in mare o in qualche zona di confine, non sappiamo quanti gruppi riescono a passare da una parte o dall’altra. Di fatto, l’immigrazione clandestina aumenta e i gruppi terroristici penetrano (quando pure non si tratti di cittadini che sono dello stesso stato oggetto dell’attacco) nonostante i muri e le unità navali e i controlli di confine.

La risposta al problema non può essere meramente difensiva, ma presuppone una offensiva, ovviamente di natura politica, che colpisca alla radice il fenomeno. Ad esempio fermando la guerra siriana che produce orde di gente che scappa dalla guerra. Invece la reazione di fronte al fenomeno è la stessa che per i muri militari: se la barriera è stata scavalcata, vuol dire che non era abbastanza alta, se sfondata non era abbastanza spessa, se aggirata non era abbastanza lunga, con la conseguente decisione di nuove linee Maginot più alte, più spesse, più lunghe, e ciò senza capire che quale che sia l’altezza, lo spessore e la lunghezza dell’eventuale muro, chi ha interesse studierà le nuove dimensioni dell’ostacolo e cercherà nuove forme per superarlo. Mentre il muro resterà come è, il suo violatore maturerà tattiche più efficaci per riuscire nell’intento. Una volta di più si dimostra che le difese fisse sono deboli costose e perdenti. Ma non per questo restano senza conseguenze.

Infatti il muro finisce per avere un effetto paradossale sul piano simbolico: identificare, circoscrivere e formare il gruppo paranoide, che si aggregherà intorno ad un “capo” che, come spesso accade, sarà il più paranoico di tutti.

Occorre comprendere il perché questo accada, paradossalmente, nel tempo della globalizzazione, nel quale le connessioni vincono sul “limes”. Le società tradizionali erano molto più autocentrate e questo assicurava una funzione prevalente del confine (appunto, il Limes) come spartiacque fra il dentro ed il fuori. Ma nel tempo della “connettografia” (come giustamente la definisce Parag Khanna), il confine è attraversato continuamente dalle linee di connessione (gasdotti, linee ferroviarie, rotte aeree e marittime, cavodotti, collegamenti satellitari, autostrade ecc. ecc.) perdendo buona parte del proprio significato di discriminante fra dentro e fuori.

Tutto questo, ha un ruolo economico, sociale, culturale di primaria importanza, ma provoca anche un senso di smarrimento e paura del vuoto. E’ uno degli aspetti dello “stress da globalizzazione” che trova nell’immigrato il nuovo ebreo, la nuova strega, il nuovo “agente segreto” cioè il nemico che incarna le tendenze diaboliche del presente.

Fonte

* affermazione opinabile in riferimento a Israele...

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