Il muro di Trump mi ha portato ad alcune riflessioni più generali. Di muri ce ne sono già molti:
in Algeria, Marocco, Spagna, Palestina, India, Thailandia, Arabia
Saudita, Botswana, Emirati Arabi Uniti, Irlanda. Uzbekistan, Corea,
Pakistan, Cipro eccetera.
In gran parte sono opere militari per proteggersi da
incursioni di gruppi terroristici (come in Marocco contro il Fronte
Polisario o in Israele*) o di eserciti regolari (come nella parte turca
di Cipro), ma sempre più numerosi sono quelli pensati in funzione anti
immigrati. E’ interessante notare che in quasi nessun caso il muro ha
raggiunto i risultati auspicati, per cui, dopo una fase iniziale di
successo, quasi sempre il risultato si è rivelato molto al di sotto
delle aspettative.
Eppure altri muri o altro tipo di barriere, sono in costruzione, come
ad esempio in Ungheria, o al confine italo francese, o se ne auspica la
costruzione come in Austria. Ed ora Trump ne vuole un altro fra Usa e
Messico, dove, per la verità, un muro c’è già dal 1994, quando lo volle
il Presidente Clinton, democratico. Ma dunque, se si sente l’esigenza di
un nuovo muro è perché il precedente non ha funzionato. Forse non era
abbastanza alto, spesso, lungo o forse aveva troppi buchi.
Di qui la mia idea di parlare della “politica dei muri”
considerando il fenomeno più da lontano, senza riferimento a nessun
caso particolare e soffermandoci sul suo valore simbolico. Alla base c’è
un meccanismo psicologico elementare: il muro è la materializzazione
dello “spazio sicuro” in cui muoversi, la divisione fra un “interno”
sicuro, amichevole e protettivo ed un “esterno” ostile e pericoloso.
Per dirla con Jhon Steiner si tratta di un classico rifugio della mente contro l’angoscia.
Adriano Voltolin, nel suo “”Il rifugio e la prigione”
(Mimesis 2013) cita l’esempio dell’“uccellino nel guscio che ha tutto
quello che gli serve per vivere senza uscire dalla sua protezione ed
altri casi in cui il paziente sogna (o, nei casi più gravi, spera) di
poter vivere in una bolla in sospensione che lo isoli dal “fuori”; ad
esempio, il bambino che disegna un autobus subacqueo perfettamente a
tenuta stagna, che ha come unico contatto con l’esterno il tubo di
scappamento, trasparente simbolizzazione del defecare, dell’espellere
verso il caotico “fuori” i propri scarti per ridurre il grado interno di
entropia.
Psicologicamente, si tratta di una regressione nell’utero materno,
una vita fuori del tempo e dell’ambiente, al riparo dagli agguati della
vita stessa. A volte questo è vissuto come una prigione, e comporta
sofferenza, ma una sofferenza inferiore all’angoscia dell’affrontare i
pericoli del fuori.
Questa esigenza di demarcare il dentro dal fuori,
con una barriera fisica imponente ha trovato la sua massima espressione
in campo militare, che ha avuto da sempre il muro come esaltazione del
“vantaggio del difensore”. Basti citare il vallo Adriano fra Britannia e
Caledonia, quello Traiano in Romania, quello germano-retico, per non
citare l’esempio più celebre della Grande Muraglia. Per la verità, dopo
un certo periodo di efficacia, queste imponenti costruzioni non
impedirono il crollo dell’Impero Romano ed il prevalere dei “barbari”.
Anche in Cina la muraglia non riuscì ad impedire le scorrerie delle
“genti del Nord” ed ebbe un ruolo culturale e simbolico nella
costruzione di un “noi”, particolarmente in epoca Han.
Né, per la verità, ebbero migliori risultati le fortezze medievali,
soprattutto dopo la comparsa delle armi da fuoco. Eppure il “mito” del
grande argine murario, come difesa assoluta, proseguì ad intermittenza.
Ma, già Napoleone (poi seguito da Clausewitz) avvertì che la parte che
si rinchiude nelle sue fortificazioni è destinata a perdere la guerra.
Non che le fortificazioni siano in assoluto inutili, ma sono la
difesa più debole che si possa immaginare, perché sono fisse e
artificiali e, in quanto tali, costose, adatte solo alla fase della
guerra di posizione ma sono di impaccio quando si passi all’offensiva.
E, soprattutto hanno una efficacia limitata nel tempo. Infatti,
l’avversario prenderà facilmente conoscenza della “ grande muraglia” e
studierà piani di sfondamento, scavalcamento o aggiramento di essa,
rendendola via via meno efficace. In teoria, questo richiederebbe un
costante aggiornamento dello schema difensivo (posto che si riesca a
capire o immaginare quale possa essere la strategia che il nemico stia
maturando). Ma una linea di mura, fossati, casematte o castelli non si
può spostare, e costruirne di nuove comporta tempi lunghi e costi
salatissimi. Per cui, quanto più una strategia si basi su difese fisse
(e quelle naturali sarebbero preferibili, non fosse altro che per i
costi) tanto più questo obbligherà a condotte di guerra poco dinamiche e
facilmente prevedibili. In una parola, perdenti.
Sin dai primi dell’ottocento questo fu chiaro e,
infatti, il pensiero militare superò lo schema delle fortificazioni,
preferendo la guerra manovrata, come era stato proprio dell’esperienza
napoleonica e, prima ancora, di Raimondo Montecuccoli. Ma lo schema
della guerra di posizione e logoramento, tornò agli onori del pensiero
militare grazie alla triade trincea – filo spinato – mitragliatrice della
prima guerra mondiale. E, infatti, subito dopo di essa, si tornò alla
costruzione di lunghe linee difensive fortificate: i Francesi
costruirono la linea Maginot (facilmente aggirata dai Panzer di Guderian
nel 1940), i Sovietici la linea Molotov e linea Stalin, gli Yugoslavi
la linea Rupnik, tutte travolte dalle offensive tedesche.
Nè ebbero migliore fortuna le analoghe difese tedesche della linea
Sigfrido, vallo Mediterraneo, vallo Atlantico, vallo Orientale, tutte
soccombenti di fronte alle armate alleate o sovietiche. Di fronte
all’attacco congiunto di carri ed aerei, le barriere fisse ebbero solo
(e non sempre) il risultato di guadagnare qualche tempo e costare
all’avversario un po’ più di sangue, ma in compenso furono spesso
ragione di errori strategici. Ad esempio i francesi ne fecero due: dal
settembre 1939 al maggio 1940, quando restarono tranquilli dietro le
loro fortificazioni, non approfittando del momento migliore per colpire
(quando i tedeschi erano sbilanciati sul fianco est) e proprio perché
valutarono troppo dispendioso attaccare la linea Sigfrid e immaginarono
che fosse più vantaggioso che fossero i tedeschi a schiantarsi sulla
linea Maginot. Il secondo errore venne nel maggio 1940, quando il capo
di stato maggiore francese Maurice Gamelin, sentendosi sicuro dietro la
linea Maginot e la foresta delle Ardenne, sbilanciò l’esercito francese a
nord, mentre i tedeschi sfondarono attraverso le Ardenne e aggirarono
la linea, trovando pochissima resistenza. Errori simili furono poi fatti
dai sovietici fra il 1940 ed il giugno 1941. Come si vede, le linee
difensive su insediamenti fissi favoriscono spesso piani strategici
scarsamente adattabili a situazioni diverse dal previsto. Peraltro è
interessante osservare anche l’effetto sulla popolazione: nel caso di
ampie barriere fisse, inevitabilmente la propaganda ne vanterà
l’insespugnabilità (anche per far digerire il loro costo all’opinione
pubblica), e questo verrà facilmente creduto, ma, quando poi il fronte
cade, questo ha un effetto moltiplicatore nel crollo della resistenza
psicologica della popolazione.
In ogni caso, gli scarsi risultati ottenuti con questo tipo di difesa
determinò il tramonto dei muri militari. E infatti, dal 1945 agli anni
novanta non sorsero fortificazioni fisse, salvo eccezioni particolari
come Cipro o la Corea.
La rinascita dei muri, paradossalmente, venne al tempo della globalizzazione,
ma non più per fermare offensive militari, quanto come contrasto a
terrorismo ed immigrazione (e qualche volta le due cose sono presentate
come se l’una contenesse necessariamente l’altra). E la cosa appare
ancor meno efficace che nel caso di barriere contro eserciti, proprio
perché i terroristi si muovono in piccolissimi gruppi che scavalcano le
barriere sbarcando da un aereo con visto turistico o arrivando in forme
regolarissime, come lavoratori o come studenti.
Mentre gli immigrati si muovono spesso in gruppi più nutriti e
vistosi, ma pur sempre imparagonabili ad un esercito in movimento, per
cui trovano spesso forme di aggiramento, magari con l’ausilio di
organizzazioni della malavita, attraverso sbarchi clandestini o valichi
di montagna poco sorvegliati o linee ferroviarie di frontalieri. Di
fatto è impossibile blindare qualsiasi confine e, se spesso leggiamo di
gruppi di clandestini bloccati in mare o in qualche zona di confine, non
sappiamo quanti gruppi riescono a passare da una parte o dall’altra. Di
fatto, l’immigrazione clandestina aumenta e i gruppi terroristici
penetrano (quando pure non si tratti di cittadini che sono dello stesso
stato oggetto dell’attacco) nonostante i muri e le unità navali e i
controlli di confine.
La risposta al problema non può essere meramente difensiva,
ma presuppone una offensiva, ovviamente di natura politica, che
colpisca alla radice il fenomeno. Ad esempio fermando la guerra siriana
che produce orde di gente che scappa dalla guerra. Invece la reazione di
fronte al fenomeno è la stessa che per i muri militari: se la barriera è
stata scavalcata, vuol dire che non era abbastanza alta, se sfondata
non era abbastanza spessa, se aggirata non era abbastanza lunga, con la
conseguente decisione di nuove linee Maginot più alte, più spesse, più
lunghe, e ciò senza capire che quale che sia l’altezza, lo spessore e la
lunghezza dell’eventuale muro, chi ha interesse studierà le nuove
dimensioni dell’ostacolo e cercherà nuove forme per superarlo. Mentre il
muro resterà come è, il suo violatore maturerà tattiche più efficaci
per riuscire nell’intento. Una volta di più si dimostra che le difese
fisse sono deboli costose e perdenti. Ma non per questo restano senza
conseguenze.
Infatti il muro finisce per avere un effetto paradossale sul piano
simbolico: identificare, circoscrivere e formare il gruppo paranoide,
che si aggregherà intorno ad un “capo” che, come spesso accade, sarà il
più paranoico di tutti.
Occorre comprendere il perché questo accada, paradossalmente, nel
tempo della globalizzazione, nel quale le connessioni vincono sul
“limes”. Le società tradizionali erano molto più autocentrate e questo
assicurava una funzione prevalente del confine (appunto, il Limes) come
spartiacque fra il dentro ed il fuori. Ma nel tempo della
“connettografia” (come giustamente la definisce Parag Khanna), il
confine è attraversato continuamente dalle linee di connessione
(gasdotti, linee ferroviarie, rotte aeree e marittime, cavodotti,
collegamenti satellitari, autostrade ecc. ecc.) perdendo buona parte del
proprio significato di discriminante fra dentro e fuori.
Tutto questo, ha un ruolo economico, sociale, culturale di primaria importanza,
ma provoca anche un senso di smarrimento e paura del vuoto. E’ uno
degli aspetti dello “stress da globalizzazione” che trova nell’immigrato
il nuovo ebreo, la nuova strega, il nuovo “agente segreto” cioè il
nemico che incarna le tendenze diaboliche del presente.
Fonte
* affermazione opinabile in riferimento a Israele...
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