di Chiara Cruciati il Manifesto
«La zona est di Mosul è
quella meno residenziale e più industriale, mentre ad ovest c’è la città
vecchia: la battaglia è destinata ad essere più cruenta. Le vie sono
strette, i quartieri residenziali. I civili soffriranno molto di più gli
scontri. Anche perché si tratta dell’ultimo baluardo dell’Isis: opporrà
una resistenza all’ultimo sangue».
Emanuele Nannini, vice coordinatore dell’Ufficio Umanitario di Emergency,
si prepara all’emergenza che esploderà con il lancio della seconda fase
della controffensiva. «Dalla città di Mosul, dal 17 ottobre [data di
inizio dell’operazione, ndr] a metà gennaio, sono arrivati 3mila feriti – spiega al manifesto –
Nelle settimane passate i combattimenti erano quasi fermi: le truppe
irachene, liberata la parte est, si erano fermate al fiume per
riorganizzarsi. Il momento è stato propizio: abbiamo potuto aumentare la
capienza ospedaliera in attesa che ripartisse l’operazione».
L’ospedale di cui parla è il centro che Emergency aprì vent’anni fa a Erbil, Kurdistan iracheno.
All’epoca l’organizzazione italiana era arrivata per curare i feriti
della guerra civile tra i due principali partiti kurdi, il Kdp dei
Barzani e il Puk dei Talabani.
Emergency aprì due ospedali, uno ad Erbil e uno a Suleimanya, i poli del potere dei due clan:
«Nel 2005 con l’attenuazione del conflitto e lo sviluppo della capacità
delle autorità locali di gestire i centri, abbiamo passato gli ospedali
al Ministero della Sanità. È rimasto in carico ad Ermergency il centro
di riabilitazione di Suleimaniya, dove costruiamo le protesi e
continuiamo a seguire i pazienti».
Quasi dieci anni dopo, nel giugno 2014, l’Isis occupa Mosul e si
allarga nell’Iraq orientale. In poco tempo milioni di iracheni fuggono e
raggiungono il Kurdistan, che ospitava già centinaia di migliaia di
rifugiati dalla vicina Siria. Un afflusso enorme (2 milioni di persone
su una popolazione locale di sei) che si unisce alla crescente crisi
economica che colpisce Erbil e che fa collassare il sistema sanitario.
«Emergency ha deciso di tornare con un importante numero di
personale espatriato per aiutare le autorità kurde nella gestione
sanitaria di profughi siriani e sfollati iracheni – continua
Emanuele – Negli ultimi due anni abbiamo preso in carico sei cliniche
nei campi profughi dove offriamo assistenza di base, seguiamo i pazienti
cronici che fanno fatica ad accedere al sistema sanitario locale e
facciamo promozione igienico-sanitaria».
«Siamo tornati in contatto con i due ospedali di Erbil e Suleimaniya:
fino allo scorso anno le autorità locali sono riusciti a gestirli ma
poi, a causa della crisi economica, il calo del prezzo del petrolio e
l’alto numero di sfollati ospitati, il sistema sanitario è letteralmente
collassato. A questo si è aggiunta la controffensiva su Mosul: su Erbil
si sono riversati da subito molti feriti, la città dista solo 70 km».
A gennaio Emergency è tornata nella capitale del Kurdistan iracheno.
È tornata per riabilitare gli ospedali, per la messa in sicurezza e la
riabilitazione dei dipartimenti, per aumentare la capienza ospedaliera
(passata al momento da 20-25 letti a 70-80).
Ma anche per sostenere finanziariamente il personale: «Da più di un
anno lo staff locale, 120 dipendenti, riceve solo il 25% dello
stipendio. Interverremo con un sistema di incentivi: molti si sono
trovati un secondo lavoro e lavorano part time in ospedale, lasciando i
turni scoperti. Così torneranno a pieno ritmo in ospedale».
Emergency si prepara in vista della seconda fase della controffensiva su Mosul.
Alla base sta un coordinamento tra organizzazioni internazionali e
autorità locali che permette l’arrivo dei feriti di guerra a Erbil:
attraverso i Trauma Stabilization Point, i feriti vengono portati dalle
ambulanze irachene al confine con il Kurdistan e lì presi in carico dai
medici kurdi.
«Si tratta di feriti di guerra, persone colpite dai mortai dell’Isis,
l’artiglieria pesante irachena e i raid statunitensi – aggiunge
Emanuele – Ma arrivano pazienti anche dalle zone già riprese dal governo
iracheno, spesso feriti nell’esplosione di autobombe islamiste o
ordigni lasciati nelle città dopo la ritirata».
Sullo sfondo un paese martoriato da decenni di guerre ininterrotte, sfaldato dopo l’invasione Usa. A pagare sono i civili:
il livello di distruzione è immenso. Non solo sul piano
infrastrutturale, ma anche su quello comunitario e psicologico: «Il
senso di trauma tra gli sfollati è fortissimo. C’è un’enorme incertezza.
Non sanno neppure se torneranno nei loro villaggi, a causa degli
scontri settari».
Scontri che influenzano anche l’accoglienza in Kurdistan. Se nei
primi mesi dopo la caduta di Mosul, le porte sono rimaste aperte, negli
ultimi due anni Erbil ha imbastito un sistema di screening che taglia
fuori i sunniti.
Per entrare serve uno sponsor locale, più facilmente rintracciabile
da cristiani e yazidi: «C’è una grossa distinzione negli ingressi a
seconda della provenienza, maggiore cautela verso chi arriva da Mosul
per timore che tra loro si nascondano islamisti. Gli sfollati vengono
portati in grossi campi in una sorta di zona cuscinetto tra zone Isis e
Kurdistan. Qui si svolge un processo di screening molto lungo e tortuoso
e poi li si rialloca in altri campi».
Ora parte una nuova fase, Mosul ovest deciderà il destino dell’Iraq,
delle sue divisioni interne e delle sue contraddizioni. Sulla pelle dei
civili.
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