I
salari bassi non aiutano affatto l’economia. E neanche la
“competitività” di un sistema paese. Al contrario, come si è visto negli
ultimi anni in quasi tutta Europa e persino negli Stati Uniti,
disoccupazione e conseguentemente bassi salari producono una crisi
sociale devastante che trova il suo sfogo nel rifiuto generalizzato
dell’establishment (“populismo” di destra e di sinistra, astensionismo,
crisi dei partiti tradizionali, ecc).
Solo
se si tiene presente questa situazione – metabolizzata da una parte
crescente dell’establishment multinazionale – si può capire ad esempio
la dimensione reale della presunta “svolta” della socialdemocrazia
tedesca, con il candidato premier Martin Schultz che promette di
rivedere (non abolire) le riforme del mercato del lavoro conosciute come
“Hartz IV”. I fessi possono prendere questa promessa come un “ritorno a
sinistra” dell’Spd, chi segue la discussione intorno ai problemi
economici europei sa invece che la “moderazione salariale” inaugurata
proprio dai tedeschi con il governo di Gerhard Schroeder –
“socialdemocratico” anche lui, che costrinse in quel caso Oskar
Lafontaine a dimettersi da ministro e uscire dal partito – è uno dei
problemi che contribuiscono ad accentuare la mancata crescita
dell’eurozona. L’economia tedesca, in altri termini, funziona in modo
bulimico, accumulando surplus con le esportazioni senza però far
crescere i consumi interni. In questo modo si deprimono sia le attività
produttive mirate al mercato interno, sia le importazioni dagli altri
paesi dell’eurozona, costretti – anche dalle prescrizioni dell’Unione
Europea – a seguire il “modello tedesco” senza avere le caratteristiche
per poterlo fare. Insomma, la Germania dovrebbe fare un po’ più da
“locomotiva” per l’area UE, facendo crescere i salari interni e dunque i
consumi.
Si
moltiplicano del resto i segnali di inversione o attenuamento
dell’“austerità” in alcuni paesi – quelli del “grande Nord”, mica quelli mediterranei o con alto debito (come la Francia) – e di critica
anche tecnica delle politiche salariali deflazionistiche. Esemplare, in
questo senso la critica esplicita della Banca d’Italia all’ultimo contratto nazionale dei metalmeccanici,
con il rovesciamento del meccanismo che lega gli aumenti salariali
monetari (non del potere d’acquisto) al recupero dell’inflazione già
realizzata, invece che – com’era prima – di quella “attesa”. Non perché
fosse il paradiso dei lavoratori dipendenti, ma almeno trasmetteva un
refolo di spinta inflazionistica che tornava addirittura utile
all’economia (la Bce sta combattendo disperatamente da oltre tre anni la
deflazione, senza grandi risultati).
Il beneficio degli alti salari comincia ad essere apprezzato anche dal giornale di De Benedetti (inserto Affari e Finanza di Repubblica), che propone oggi un’analisi impensabile fino a qualche mese fa e tutt’ora ignorata da Confindustria (De Benedetti compreso): Stipendi bloccati e crescita ferma, il cerchio da spezzare. Come sempre, Repubblica non tira in ballo questioni etiche ma freddi numeri. I quali dicono che in fondo, in Italia, “le
retribuzioni sono da almeno 22 anni rigide verso l’alto, insensibili
alla congiuntura. Il dipendente italiano a tempo pieno guadagna oggi in
termini reali più o meno quel che guadagnava nel 1995”.
La
percezione comune è che in realtà oggi si guadagni mediamente molto
meno, ma il calcolo di Leonello Tronti è fatto solo sui lavoratori
contrattualizzati a tempo pieno, senza dunque considerare l’oceano di
precari che quei “1.800 euro mensili medi” non riescono neanche a immaginarli.
Ma facciamo finta che questo piattume salariale sia vero. “Perché
in Italia i salari non crescono? La risposta è semplice: perché non è
previsto che crescano. Il modello contrattuale italiano stabilisce
infatti che i contratti nazionali traguardino l’inflazione, ovvero che i
salari non crescano”.
Stupefacente, vero?, che il giornale che più ha sostenuto le “riforme”
montiane e renziane “scopra” il danno mortale provocato dalla politica
salariale fortemente voluta dalle imprese e dall’Unione Europea, almeno a
far data dagli accordi di Maastricht (1992), peraltro accettata senza
riserve dai sindacati “complici”. Quello che sembrava il paradiso
dell’impresa – salari fermi o in drastico calo grazie al precariato,
lavoratori ammanettati dall’alta disoccupazione e dalla paura del
licenziamento, sindacati silenti o attivi nel silenziare le proteste (il
conflitto ormai scoppia solo con i licenziamenti collettivi o le
chiusure aziendali) – è un inferno per l’economia capitalistica...
L’autocritica
(allo stato larvale, non temete!) dovrebbe essere ancora più radicale
guardando a quel che avviene nel paese che è diventato di fatto la
manifattura del mondo: la Cina. Sempre oggi, su IlSole24Ore, Riccardo Barlaam spiega il vento di ottimismo che spira dal Celeste Impero: “La
banca di investimento americana Morgan Stanley in un recente report di
188 pagine sostiene che i salari della middle class cinese continueranno
ad aumentare. Alti salari che si tradurranno in più alti consumi: le
stime parlano di un mercato da 9.600 miliardi di dollari di spesa al
consumo annua al 2030, con una crescita a due cifre nei prossimi anni.
Il futuro consumatore cinese sarà più ricco, appassionato di tecnologia e
anche più adulto. Il target perfetto per le imprese occidentali. Altro
che protezionismo”.
Peccato
che questa visione non trovi un soggetto istituzionale (l’Unione
Europea stessa) capace di intendere il contesto mutato da dieci anni di
crisi e di terapie “austere”. Un esempio? La Commissione europea, in
questi giorni, ha deciso di indagare sulla realizzazione della ferrovia superveloce che dovrebbe collegare Belgrado a Budapest (Serbia e Ungheria), tratto
mancante della “via della seta” che la Cina sta finanziando da anni e
che dovrebbe – nel sud Europa – raggiungere il porto greco del Pireo
(acquistato proprio dai cinesi “grazie” alle privatizzazioni imposte
dalla Troika!), così come raggiunge la Germania e il porto olandese di
Rotterdam.
Il casus belli
è ovviamente “regolamentare” – i cinesi avrebbero incaricato dei lavori
due delle proprie imprese, invece di indire una “gara europea” – ma il
significato politico è piuttosto ruvido; e stupido. L’Unione Europea che
si autodescrive come campione del libero mercato globale e che pretende
di far da argine al “populismo protezionistico” si attiva per
proteggere il ramo nord di un’opera ciclopica a scapito del “rametto
sud”. Sembra davvero difficile che dentro queste teste possa entrare il
concetto che i salari crescenti sono una risorsa, se non altro per
tentare di sbloccare la stagnazione...
Fonte
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