di Pasquale Cicalese per Marx21.it
“I contratti stipulati di recente hanno introdotto alcuni importanti elementi di novità. L’accordo siglato alla fine di novembre per il comparto metalmeccanico – relativo a circa un quinto del monte retributivo del settore privato oltre a non contemplare incrementi sino alla prossima estate (prolungando così alla metà del 2017 la fase di marcata moderazione salariale), stabilisce che gli aumenti successivi siano determinati ex post, con frequenza annuale e in base alla dinamica realizzata dell’indice dei prezzi al consumo (al netto dei beni energetici importati). In tal modo si modifica la regola fissata dall’accordo interconfederale del 2009, che prevedeva aumenti definiti su un orizzonte triennale in funzione dell’andamento atteso dello stesso indice. Una clausola che lega gli incrementi retributivi all’inflazione passata è stata introdotta nel dicembre 2016 anche nel contratto per il settore del legno ed è stata ripresa nella piattaforma presentata dalla parte datoriale del comparto tessile, dove è ancora in corso la trattativa. Rispetto al totale dei contratti, quelli che prevedono meccanismi di indicizzazione ex post (incluso il contratto del comparto tessile tuttora in fase di negoziazione) rappresentano al momento circa un terzo del monte retributivo del settore privato. Il legame delle retribuzioni con l’inflazione passata, anziché con suoi valori previsti o programmati, può tradursi in una maggiore inerzia nell’andamento dell’inflazione stessa (come avveniva con la scala mobile abolita dal protocollo del 1993); nell’attuale fase ciclica potrebbe comportare una maggiore difficoltà nel ritorno verso valori coerenti con la stabilità dei prezzi.”
Banca d’Italia, Bollettino Economico, 20 gennaio 2017, pagg. 33-34
“È il modello-Germania. Non vergogniamoci di copiare, ma ricordiamoci di adattare. Non perdiamoci le Pmi, il nostro sistema non è quello tedesco dei campioni nazionali”. Lello Naso, Duro lavoro e riforme per andare oltre i record, Il sole 24 ore 17.02.2017
Nella strana Italia del 2017 può capitare che la banca centrale italiana, benché ormai priva di poteri, vada più a sinistra della Fiom, arrivando a lanciare l’allarme sulla “stabilità” dei prezzi con il nuovo contratto dei metalmeccanici, accusandolo esplicitamente di essere deflazionista, per chi voglia intendere.
Sempre nel Bollettino economico, Bankitalia informa che l’Italia ha guadagnato negli ultimi due anni 2,5 punti percentuali nella competitività di prezzo rispetto all’1.3 tedesco. Pare che la strategia degli industriali italiani sia chiara: rosicchiare punti di competitività di prezzo ai tedeschi utilizzando la deflazione salariale, più massicciamente dei tedeschi stessi, i quali, complice il mutato clima internazionale e i venti di protezionismo, pare stiano dirigendo la propria azione ad una timida reflazione salariale e ad un focalizzarsi sul mercato interno.
Ciò che ha fatto la Germania con la riforma Hartz IV del 2003 è applicato in questi anni in Italia con la differenza che lì si partiva da livelli assoluti ben più alti.
I nuovi contratti privati, basati ex post sull’inflazione core (cioè al netto dell’energia), che è ben più bassa dall’indice di inflazione ufficiale, prevedono una stasi decennale delle retribuzioni finalizzata a conquistare 10, 15 punti percentuali di competitività di prezzo sul concorrente tedesco. Ciò significa una ancor più marcata deflazione salariale e un restringimento del mercato interno ancor più profondo, con l’export come unica valvola di sfogo.
Se sul piano delle relazioni industriali il modello tedesco adottato è basato sulla competitività di prezzo e non già sull’innovazione tecnologica, su una crescita dimensionale delle aziende, sulla capitalizzazione delle imprese e su alte spese in ricerca, sul piano fiscale la deflazione salariale è ancor più massiccia. Prova ne è l’analisi sulle entrate erariali dei primi 11 mesi del 2016 del Ministero delle Finanze, che vedono un forte incremento delle imposte indirette, che colpiscono indiscriminatamente disoccupati, precari, lavoratori e milionari, e un aumento sostanzioso delle imposte sul lavoro dipendente.
Dunque, in fabbrica, anche grazie alla complicità ultradecennale dei sindacati confederali, non ti fanno aumenti per gli anni futuri, facendoti guadagnare solo l’inflazione core, e i prezzi energetici non vengono contemplati, mentre a livello fiscale operano un salasso sul lavoro dipendente che deprime ancor più il mercato interno, facendo apparire le retribuzioni per quello che sono, da fame.
Infatti, mentre l’Irpef ha avuto un incasso di 164 miliardi, per l’80% pagata da dipendenti e pensionati, le tasse sui profitti delle aziende, vale a dire l’Ires, presentano un gettito pari a... 34 miliardi di euro, tra l’altro pagate per lo più da banche, visto che storicamente la maggior parte delle aziende presenta bilanci truccati o in pareggio o in perdita, o ha la residenza fiscale in paradisi fiscali.
Alle aziende i governi ultimi hanno dedicato un’attenzione spropositata: con la fiscalità generale, vale a dire col salasso dei salari, sono stati indirizzati ad esse 20 miliardi di detrazione per assunzione, 7 miliardi di mancati pagamenti dell’Irap, che hanno dissanguato le casse degli enti territoriali. Hanno tagliato spese sociali, diminuito l’aliquota dell’Ires, finanziato investimenti in Industria 4.0 e legge Sabatini per decine di miliardi, senza contare gli incentivi a fondo perduto europei gestiti a livello regionale.
Ti pago per assumere, ti pago per fare investimenti, ti riduco le aliquote contributive e fiscali e in più, con i profitti che fai, ti riduco l’imposta sui profitti. Protezionismo fiscale e deflazione salariale per rosicchiare quote di competitività di prezzo ai concorrenti, a costo di distruggere l’economia del Paese.
Dove li prendo questi soldi? Salassando i salariati e tagliando spesa sociale e pensionistica. Il socialismo per i ricchi. Dove sono questi soldi?
Dunque, abbiamo accennato che il paese ha guadagnato sul mercato internazionale 2,5 punti di competitività di prezzo; ciò si è riflesso nel 2016 nel record dell’avanzo commerciale, cioè la differenza tra import ed export, per l’esattezza di 51,6 miliardi di euro, circa il 3% del pil (quello tedesco è dell’8,7%, siamo sulla buona strada), dovuto soprattutto al calo dei prezzi internazionali delle materie prime, ma anche ad una timida ripresa dell’export, specie negli ultimi due mesi.
L’avanzo commerciale si è riflesso nel surplus delle partite correnti a circa 46 miliardi, il 2,8% del pil. Non hanno concorso quest’anno solo le merci, informa Banca d’Italia il 17 febbraio, ma anche il nuovo surplus dei “redditi primari”. Cosa sono? Sono le plusvalenze, i profitti finanziari fatti all’estero a seguito di investimenti di portafoglio. E qui viene il bello. Negli ultimi tre anni ben 280 miliardi di euro sono stati investiti all’estero in polizze assicurative, fondi aperti e risparmio gestito, il quale nel 2016 ha avuto il record storico di masse gestite pari a 1943 miliardi di euro, il 95% investito all’estero.
Si ha record di avanzo commerciale, si ha surplus delle partite correnti, ma il ricavato non è destinato ad investimenti aziendali, ma ad investimenti di portafoglio all’estero, in carta finanziaria. Le stesse banche italiane hanno smesso da anni di fare profitti con il corporate banking, vale a dire banca commerciale rivolta alle imprese, e fanno soldi con il private banking e il wealth management, vale a dire la gestione delle ricchezze degli industriali italiani.
Se prima e dopo la crisi la Germania indirizzava il suo surplus in Usa, il surplus italiano è indirizzato in Germania, nord Europa e Usa. In pratica con il ricavato dell’operato aziendale, grazie a quel che la stessa Banca d’Italia definisce “una marcata moderazione salariale” vengono finanziate le altre economie, lasciando a bocca asciutta quella italiana.
E’ il modello tedesco all’italiana. Fatto proprio dai sindacati confederali che hanno addirittura accettato il rimborso solo ex post e solo per l’inflazione core per gli aumenti salariali. Manna dal cielo per gli industriali italiani: la riduzione massiccia della massa salariale è controfirmata dai confederali in cambio di niente, o meglio la gestione consociativa degli istituti di welfare aziendale oltre che dei fondi pensione. Oltretutto si scarica sui salariati il costo dei beni energetici, che non incontrano copertura da eventuali aumenti. Unito al progressivo aumento delle accise e delle bollette, la riduzione della massa salariale risulta ancor più marcata.
L’aumento della massa di profitto causato dalla riduzione della massa salariale (che provoca minor domanda interna e quindi minori importazioni), dall’allungamento della giornata lavorativa e dall’intensificazione dei ritmi di lavoro con il progetto Industria 4.0 voluto dal Ministero dello Sviluppo Economico, e da questi ampiamente finanziato, si riverserà sempre più in un aumento del surplus commerciale e del surplus delle partite correnti e, da questi, in una massiccia esportazioni di capitali, impoverendo sempre più il Paese.
In Germania con Hartz IV la percentuale di poveri è passata dall’8 al 16%. L’adozione in salsa italiana del modello tedesco causerà l’ingrossamento dell’esercito industriale di riserva e l’ampliamento di quel che Marx definiva i “lazzari”. Tutto ciò con l’avallo e il finanziamento dello Stato italiano, che sempre più si dimostra un comitato d’affari del blocco dominante.
E’ talmente assurdo il progetto che è toccato a Banca d’Italia, come sopra, definire destabilizzante questo nuovo modello contrattuale. Alla Fiom leggono i Bollettini Economici della banca centrale italiana? O sono intenti ad andare a Ballarò a fare i moralisti?
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