L’inflazione “cattiva” continua a risalire, si mangia i salari e peggiora le condizioni dell’economia. La fotografia scattata dall’Istat sull’andamento dei prezzi al consumo non può indurre nessuno all’ottimismo, e per fortuna che Gentiloni non ha le physique du role per interpretare la parte che è stata di Renzi.
Dopo anni di deflazione e di politiche monetarie Bce, inutilmente miranti a risollevarla fino al limite considerato “ottimale” (intorno al +2%), un rialzo dell’1% rispetto allo stesso mese dell’anno scorso potrebbe sembrare una buona notizia. Ma non lo è.
Nel mese di gennaio 2017, infatti, l'indice nazionale dei prezzi al consumo per l'intera collettività (NIC), registra un aumento dello 0,3% rispetto al mese precedente e dell'1,0% nei confronti di gennaio 2016 (la stima preliminare era +0,9%), mostrando segni di accelerazione (era +0,5% a dicembre). Il problema – spiega l’Istat – è che “il rialzo dell'inflazione è dovuto alle componenti merceologiche i cui prezzi presentano maggiore volatilità. Si tratta in particolare della netta accelerazione della crescita tendenziale dei Beni energetici non regolamentati (+9,0%, da +2,4% del mese precedente) e degli Alimentari non lavorati (+5,3%, era +1,8% a dicembre), cui si aggiunge il ridimensionamento della flessione dei prezzi degli Energetici regolamentati (-2,8%, da -5,8%)”.
In pratica, anche a gennaio, l’aumento dei prezzi non è dipeso da una crescita dei consumi, ma esclusivamente da fattori esterni all’economia italiana (come i prezzi petroliferi, saliti in virtù dell’accordo tra Opec e Russia per diminuire la produzione giornaliera) oppure per la speculazione sui prodotti agricoli in seguito alle nevicate di gennaio. La situazione non potrà che peggiorare a breve termine, visto che il governo sta preparando una "manovra correttiva" da 3,4 miliardi per rispettare i diktat dell'Unione Europea; e si sa già che questa manovra conterrà tagli alla spesa pubblica e aumento delle accise sui carburanti (che entrano nella formazione del prezzo di tutte le merci).
Sempre l’Istat spiega che l'"inflazione di fondo" – se non si calcolano questi due fattori – addirittura “rallenta, seppur di poco, portandosi a +0,5%, da +0,6% del mese precedente”.
Stesso discorso nel settore dei servizi, dove l’amento dei prezzi rallenta (+0,7%, da +0,9% del mese precedente). Di conseguenza, rispetto a dicembre, il differenziale inflazionistico tra servizi e beni torna negativo dopo 46 mesi portandosi a meno 0,5 punti percentuali. Tradotto: i prodotti reali insostituibili (energia e alimentari freschi) aumentano di prezzo molto più rapidamente di quelli di cui si può fare a meno e ancora più rapidamente dei servizi, che avvertono meno la pressione dei prodotti energetici.
I prezzi dei beni alimentari, per la cura della casa e della persona aumentano infatti dell'1,1% su base mensile e dell'1,9% su base annua (era solo +0,6%, in dicembre).
I prezzi dei prodotti ad alta frequenza di acquisto – il cosiddetto “carrello della spesa” – aumentano dello 0,9% in termini congiunturali e registrano una crescita su base annua del 2,2%, dall'1,0% del mese precedente. Sono questi a pesare effettivamente su salari e pensioni, già compressi fino al livello della povertà relativa.
Peggio ancora. L'indice armonizzato dei prezzi al consumo (IPCA) – quello su cui si basa il “recupero automatico dell’inflazione” nei contratti nazionali di lavoro – diminuisce dell'1,7% su base congiunturale e aumenta dell'1,0% in termini tendenziali. Il che significa che avrà un effetto, nel migliore dei casi, pari a zero in quelli che una volta sarebbero stati definiti “aumenti salariali monetari”. Il potere d’acquisto insomma scende perché salari e pensioni restano inchiodati mentre i prezzi riprendono a salire per i motivi sbagliati.
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