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28/02/2017

Il Rebus dell’elezioni politiche genovesi nella crisi della politica italiana

Le prossime elezioni comunali a Genova, come nel resto d’Italia saranno un banco di prova interessante per saggiare lo stato dell’arte del processo di delegittimazione delle élites di potere e dei loro attori politici anche a livello locale, così come della capacità di articolare una risposta adeguata all’emergente bisogno di rappresentanza politica, anche in chiave elettorale, delle classi popolari.

Questo contributo, è il primo di una serie che vuole fornire il quadro, non solo delle mutate condizioni della situazione politica locale (e dei suoi intrecci con quello nazionale), ma dei cambiamenti profondi della Superba nel suo complesso: la governace dei processi che la sta attraversando è la vera posta in gioco delle prossime elezioni.

Il suo futuro è incerto e non è ancora scritto.

La competizione elettorale saggerà il prodotto dell’attuale fase di “decomposizione/ricomposizione” delle formazioni politiche emerse con la “Seconda Repubblica” e del loro gradimento da parte dei ceti popolari: seppure hanno apertamente manifestato il loro interesse a governare anche con una scarsa base di consenso – dovuta a quella che sembrava essere una crescente e inarrestabile tendenza all’astensione al voto – devono comunque passare per le forche caudine della prova elettorale che le ha punite quando una parte consistente della popolazione ha visto il voto come uno strumento utile per mettere in discussione il loro operato, come è avvenuto nel recente referendum costituzionale anche sul territorio genovese.

La scissione del PD nazionale e la frammentazione delle correnti interne al PD a livello locale, polarizzate attorno ai “Renzi-Renzi” (come vengono definiti i referenti locali dell’ex Presidente del Consiglio) e i “Bersaniani”, tra cui l’attuale vice-sindaco Bernini – vero deus ex machina della giunta Doria – hanno portato (insieme ad un complicato rapporto con chi ha appoggiato da “sinistra” Doria) ad una notevole empasse nella scelta di un possibile candidato sindaco, questione su cui non sembrano aver trovato la quadra. L’unica sicurezza è la mancata ricandidatura di Doria, e la probabile apertura delle temute “primarie”, osteggiate fino all’ultimo.

Il PD locale non può più attingere da quella cassa continua e apparentemente “senza fondo” che era Banca Carige, a causa degli scandali giudiziari che hanno fortemente depotenziato quella “bolla” di liquidità da cui aveva attinto per i propri progetti e su cui si strutturava la base economica del co-governo regionale Burlando-Scajola, sostanziato in una logica spartitoria di pax con la destra, assieme alla quale formava il trasversale “partito del mattone”.

Giova ricordare che le ultime primarie avevano portato alla bocciatura di due “pezzi da novanta” del PD locale: la sindaca Marta Vincenzi, e nientedimeno che l’ex pacifista Roberta Pinotti, a cui è stato dato poi uno dei ruoli più importanti nel governo nazionale.

L’affermazione di Doria alle primarie aveva reso meno appetibile l’ipotesi del Movimento Cinque Stelle e meno travolgente il suo successo elettorale. Il suo candidato sindaco era l’ora fuoriuscito Paolo Putti, storico militante dei pentastellati, figura più rilevante del movimento “No Gronda” (una bretella autostradale classificabile nel novero delle Grandi Opere Inutili devastatrici del territorio). L’affermazione di Doria alle primarie aveva di fatto azzerato ogni ipotesi di intervento “alla sua sinistra” con una presenza alternativa che non fosse mera rappresentazione delle organizzazioni che l’esprimevano. Naturalmente i comitati che l’avevano sostenuto, una volta eletti sono stati di fatto sciolti, e le politiche intraprese, in particolare sulle privatizzazioni delle partecipate, ne hanno stravolto il programma elettorale. Rendendo così la Giunta, guidata dal professore proveniente dall’“aristocrazia rossa” genovese, la disillusione più celere delle tre esperienze delle giunte arancioni, che avevano conquistato in precedenza i comuni di Milano e di Cagliari.

Con il suo operato Doria ha lasciato la maggioranza saldamente nelle mani del PD – con un SEL assolutamente appiattito sulle politiche di fondo – facendo fare ben presto marcia indietro alla parte “migliore” che aveva sostenuto l’emulo di Pisapia.

Le prossime elezioni contribuiranno a comprendere la capacità di tenuta della “narrazione” del M5S, che finora ha incarnato in larghi strati delle classi subalterne quell’alternativa possibile all’attuale quadro politico, anche se le difficoltà della giunta capitolina e le emorragie interne al “movimento”, come a Genova, sembrano metterla seriamente in discussione almeno all’interno della cerchia dei suoi simpatizzanti.

Nel caso genovese l’uscita di tre consiglieri eletti tra le file del movimento (tra cui il capo-gruppo Paolo Putti con una maggiore sensibilità politica per le questioni sociali reali e una opposizione netta ai grandi progetti speculativi), divenuti poi quattro; le aspre polemiche tra il nuovo “gruppo dirigente” (rappresentato per lo più da militanti dell’ultima ora del Movimento, più inclini a concentrarsi sul marketing della comunicazione politica che sulle istanze politico-sociali) e i “fuori-usciti”, o comunque le frizioni tra chi, pur non seguendo il percorso di Putti, ha giudicato eccessivi i toni usati contro di lui (tacciato dallo stesso Grillo di essere un “traditore”), hanno avvelenato il clima.

A questo ha contribuito le discussioni relative alle nuovissime modalità di selezione dei candidati sindaco e consiglieri, il cosiddetto “Metodo Genova”, che forse avvia una nuova fase nella modalità di selezione “blindata” del personale politico pentastellato che si candida a governare una città. Il candidato sindaco sarà chi – nella rosa dei candidati consiglieri – riceve più voti, e i candidati consiglieri saranno scelti a loro volto sola tra coloro che hanno espresso la preferenza per il candidato sindaco che risulta vincitore, blindandone così l’ipotetica giunta. Questi fattori potrebbero “indebolire” l’ipotesi dei 5 Stelle come alfiere degli interessi popolari.

Certamente si sta assistendo ad un riposizionamento complessivo del Movimento, più incline ad accreditarsi complessivamente come opzione di governo affidabile per parti importanti del blocco di potere; un ceto politico “neo-borghese” pronto a raddrizzare le storture del sistema – caratterizzato anche a Genova da un sistema di clientele, corruzione e intrecci con la criminalità organizzata – ma dentro l’orizzonte di una "governabilità" che non solo non mette in discussione, ma rischia di non scalfire nemmeno i pilastri dell’attuale assetto politico-sociale a livello locale, né i profondi processi peggiorativi che sta conoscendo la Superba.

La “sinistra” e i corpi sociali intermedi che ad essa afferiscono (dirigenza di Camera del Lavoro, Arci, Comunità di S.Benedetto, “terzo settore”, associazionismo, tra gli altri) rinnova per lo più quel ruolo di subalternità all’asse di potere del PD che, se non si trasformeranno in accordi elettorali veri e propri, non ne mette in discussione le linee guida. Concependo il più delle volte solo “frizioni” che non hanno portato ad una convergenza con la Giunta (espressesi parzialmente, e solo a fine mandato) a semplici “incidenti di percorso”; come del resto sembrano confermare le vicende legate al tentativo di privatizzazione dell’azienda pubblica che gestiste il ciclo dei rifiuti, conferendola a Iren, una multi-utility che già gestisce le risorse idriche genovesi attraverso una sua controllata.

Lo spettro delle Regionali, dove la mancata alleanza con il PD (il cui corpo elettorale non ha metabolizzato positivamente la scelta di candidare la Paita da parte del suo grande sponsor Burlando) ha fatto perdere la Regione al centro sinistra “regalandola” alla destra, e lo spauracchio di “un anti-Berlusconismo senza Berlusconi” sembra essere l’idea-forza della narrazione di quella “sinistra” incline ad una alleanza con il PD.

Questa “sinistra” ha sempre sostenuto la giunta arancione nelle sue scelte peggiori di fondo: la fine dell’ipotesi del centro-sinistra ha prodotto perciò un effetto “si salvi chi può”, in cui il toto-candidato assomiglia più ad un immagine caricaturale delle fantasie del calcio mercato che ad una sfida elettorale; auto-candidature di personaggi screditati dal loro pervicace carrierismo e vere e proprie invenzioni giornalistiche. Anche quando hanno tirato fuori dal cappello il “meno peggio” – il presidente della Fondazione Ducale, Luca Borzani – tutta l’operazione cosmetica non si discostava da una copia in sedicesimi della fallimentare "rivoluzione arancione", nonostante l’indubbio valore e “il capitale simbolico” del candidato.

La destra cittadina è storicamente debole e frammentata, ma “ringaluzzita” dalla recente conquista della Regione e del vicino comune di Savona. Al suo interno la componente leghista non si è mai radicata nel capoluogo Ligure, mentre la mancanza di una “destra sociale” vicina alla galassia dei gruppi neo-fascisti – comunque presenti ed in cerca di visibilità – non conta nei giochi politici della Superba. Questo non vuol dire che la destra non punti su Genova; anzi sembra essere anche per lei un banco di prova per una possibile candidatura unitaria, in una sorta di “destra plurale”. Questo non tanto per un calcolo sulle sue forze, ma per le debolezze dell’avversario. Di fatto la destra non ha mai visto i propri interessi intralciati dal centro-sinistra, se non nelle sue più oltranziste ed episodiche crociate che hanno tratto forza più dalla cattiva gestione del centro-sinistra su alcuni temi delicati che da una vera e propria capacità politica.

Naturalmente una sinistra “sex and the city” che ha saputo condurre battaglie solo sui diritti civili individuali, mentre era protagonista, o nel migliore dei casi spettatrice, del taglio delle garanzie sociali delle classi subalterne; una "sinistra" espressione di quel ceto medio-alto, cui è spesso debitrice per la propria condizione sociale, risulta un facile bersaglio per gli attacchi della destra.

Altro cavallo di battaglia è il sovranismo di destra, specie se il “sovranismo” del Movimento 5 Stelle venisse ulteriormente diluito; un argomento che, se ben dosato, potrebbe populisticamente intercettare il risentimento delle classi subalterne in chiave anti-europeista, attraverso la narrazione del ritorno dell’Italietta della Lira.

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