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23/02/2017

La condanna di Berneschi e il sistema Carige

Giovanni Berneschi è stato condannato in primo grado a otto anni e due mesi di reclusione, l'interdizione perpetua ai pubblici uffici e la confisca di beni per 26 milioni di euro. La sentenza al processo Carige è arrivata ed è pesante.

Berneschi ha avuto addirittura una condanna più gravi di quella richiesta dal Pm, che era di 6 anni, con una confisca dei beni per la cifra impressionante di 26 milioni.

Vale la pena interrogarsi a fondo su questo caso di malversazione per studiarne i meccanismi che risultano emblematici ed anticipatori di ciò che è accaduto in tante parti del settore bancario italiano.

Ancora una volta la Liguria potrebbe rappresentare un punto di osservazione fondamentale per esaminare questo tipo di fenomeni deteriori: a patto però che il mondo politico ne tragga le conseguenze necessarie e non accada come trent’anni fa di fronte al “caso Teardo” (1983) quando tutti cercarono di minimizzare (una macchia nera in un vestito bianco fu scritto) e, nonostante le condanne, si rinunciò in pratica ad esplorare un filone che avrebbe potuto portare con quindici anni di anticipo alla scoperta di una radicata Tangentopoli, come poi fu nel 1992 a partire dall’arresto di Mario Chiesa.

Ci era già capitato di scriverlo e lo confermiamo anche nell’attualità: quella della CARIGE è stata una situazione che sembra, per certi versi, più grave di quella – già recentemente esplosa clamorosamente – al Monte dei Paschi di Siena.

Una “questione morale” coperta da anni attraverso una strategia “del coinvolgimento di tutti” che ha portato a una distribuzione diseguale delle risorse, con il rischio adesso di confondere gli episodi più gravi con quelli secondari, al punto da non far capire a quanto ammonti il vero “buco” tra Banca e Fondazione: si parla di 934 milioni di euro di deficit per la sola Fondazione.

Era il ramo assicurazioni quello verso il quale erano dirottati i fondi e creato l’enorme deficit: una distrazione vera e propria di risorse che alla fine venivano orientate sui patrimoni personali dei protagonisti, come conferma la sentenza di primo grado di ieri.

Il “coinvolgimento di tutti” però garantiva briciole e silenzio generalizzato.

Tanto è vero che un patto di sindacato composto da Coop Liguria, Coopsette, Gavio e Bonsignore sosteneva Berneschi e il suo vice Alessandro Scajola.

S’interrogava tempo addietro Gad Lerner, in un suo articolo apparso su Repubblica e titolato significativamente “E la cupola dei banchieri svuotò la cassaforte di Genova”, sull’esistenza proprio di una “cupola degli affari” “garantita da un tacito patto territoriale fra Claudio Scajola, plenipotenziario del Ponente Ligure anche attraverso le reti delle Camere di Commercio, e il presidente di sinistra della Regione Claudio Burlando, senza dimenticare le necessità dell’arcivescovo, Bertone o Bagnasco che fosse” e pone su questo un punto interrogativo, cominciando a rispondersi con un: “troppo facile”, avanzando di seguito la teoria di una spartizione della fetta più grande della torta da parte di un gruppo di imprenditori raccolto attorno al “cerchio magico” di Berneschi.

Un intreccio, dunque, tra finanza cattolica, politica d’altro bordo, cooperative: il frutto di quella politica del “coinvolgimento di tutti” che aveva trasformato la Carige in una sorta di “camera di compensazione” nella gestione di un potere molto articolato, dal quale “la cupola” di Berneschi trovava il suo alimento.

In una regione come la Liguria nella quale fra l’altro il livello di infiltrazione mafiosa nell’economia reale è sempre stato giudicato molto alto e, negli ultimi tempi, in sicura crescita.

Fin qui, però, si è soltanto tentato di descrivere un meccanismo.

Se si procede nell’analisi in maniera più approfondita è il caso di vedere come stanno sul serio le questioni dell’economia di Genova e della Liguria.

Esaurita la fase dello scambio tra aree ex-industriali e speculazione edilizia che aveva caratterizzato proprio il primo grande scandalo di “Tangentopoli” è terminato anche, con una serie impressionante di incompiute, il periodo della costruzione delle grandi infrastrutture destinate a cambiare il volto della Città e della Regione – dalla Gronda, al Terzo Valico al raddoppio della Ferrovia tra Finale e Andora – tutti fallimenti della gestione Burlando (presidente della Regione dal 2005 al 2015) che, nel frattempo, non ha saputo far altro che riempire di cemento i porticcioli, a Ponente come a Levante.

Quella dei porti turistici è stata una politica emblematizzata dal clamoroso fallimento della società che avrebbe dovuto completare il porto di Imperia.

Intanto il territorio restava devastato, senza alcuna salvaguardia e l’elenco delle alluvioni che nel corso di questi anni hanno causato disastri immani a causa dell’incuria, è lungo un chilometro: Genova città, Cinqueterre, estremo Ponente ed estremo Levante.

Così come, dalla vicenda Tirreno Power di Vado Ligure, all’area di Cornigliano il rapporto tra lavoro e ambiente ha continuato a presentare risvolti del tutto drammatici, la bonifica delle aree di ACNA e Stoppani rimane tutta da verificare e, via via tutti i settori produttivi sono andati in crisi: dalla Piaggio alla durissima lotta per mantenere in piedi Fincantieri a Sestri Ponente. Anche il famoso high-tech mostra la corda: esuberi in Esaote (e ci sono già stati scioperi), Ericsson appena insediata nella sede degli Erzelli ha cominciato a licenziare e per quel che riguarda Ansaldo, Finmeccanica pare coltivare sempre al di là delle apparenze progetti di dismissione. La vicenda Ferrania appare, invece, ormai lontana dai radar del potere, la Bombardier appare in crisi di commesse per carenze tecnologiche.

Savona è stata valutata “area di crisi complessa” ma non c’è traccia del decreto relativo.

Un quadro che sembra eufemistico giudicare “difficile” in una Genova e in una Liguria dal tasso di anzianità molto alto e afflitta da una fortissima disoccupazione.

Nessuno, a Genova come a Savona e nel resto dell’area centrale ha investito su di un’inversione di rotta e sull’intervento nelle attività produttive. I forzieri della grassa borghesia già mercantile e commerciale ormai composta soltanto da rentier sono rimasti ricolmi di denaro.

Il massimo ente bancario della Regione (non dimentichiamo che si trova nella sua orbita anche la Cassa di Risparmio di Savona) ha sviluppato, in una maniera molto particolare (come conferma la sentenza di cui ci stiamo occupando) il meccanismo dilagante della più negativa finanziarizzazione dell’economia.

Si è distrutta l’industria, terziarizzato il territorio (devastandolo), coperto di cemento ogni spazio disponibile, lasciata via libera ai grandi inquinatori (prima fra tutte Sorgenia di De Benedetti) in un intreccio perverso che oggi sta venendo clamorosamente a galla.

Una regione privata di identità, ridotta a un ruolo del tutto marginale sul piano politico, economico, sociale, che sicuramente il centro destra oggi al potere non sta affrontando se non per la parte che può riguardare l’immagine dei propri esponenti.

Certo: ci sono gli affari personali di Berneschi, ma le responsabilità politiche come potranno essere accertate e colpite?

Una regione di pensionati e di giovani disoccupati nella quale il potere, politico ed economica, sembra proprio essere stato ristretto all’interno di una convivenza all’interno del vertice di una Banca, attraverso la quale si elargivano elemosine a tutti e si tratteneva per pochi grandi fortune.

Una triste storia per quella che fu uno dei vertici del “triangolo industriale”, punto di riferimento dello sviluppo economico, industriale, sociale, politico nel periodo della grande fatica della ricostruzione dalle macerie della guerra.

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