di Rachele Gonnelli
Il futuro della Somalia si chiama Formaggio.
O meglio Farmajo, nella specie di lingua pidgin che i somali parlano
oggi, lingua meticcia con prestiti di parole inglesi, italiane e arabe
spesso storpiate o «rivisitate». Mohamed Adullahi Mohamed si insedia oggi (scorsa settimana per chi legge, ndr) nel palazzo presidenziale della capitale, «Villa Somalia»: è il primo presidente eletto da vent’anni e passa, anche se non ancora a suffragio universale
– e già questa potrebbe bastare come occasione di festa per quanto
blindata dopo l’attentato che ha fatto 39 morti in un mercato dei
sobborghi della città – ma è più noto con il soprannome, Formaggio o
Farmajo, appunto.
Il nomignolo gli è rimasto appiccicato come eredità dal padre durante la sua infanzia passata in Italia,
perché – come confessò partecipando alla seconda conferenza
internazionale della diaspora somala a Roma nel dicembre del 2011 – lui i
latticini sì, li mangia, ma non ne ha una insana passione. Farmajo
è però un nome popolare e lui che è un intellettuale prestato alla
politica, sostanzialmente al di fuori delle guerre claniche che
insanguinano il paese dalla fine della dittatura di Siad Barre nel 1992,
lo sta usando per accrescere la sua popolarità in patria, dove
è tornato in pianta stabile da poco più di un mese, dopo un periodo
occupato in giro per le varie comunità somale all’estero che lo hanno
acclamato loro candidato.
Somalo di New York, Mohamed A. Mohamed Farmajo, nato a
Mogadiscio nel 1962, è un professore di storia dell’Università di
Buffalo con doppia nazionalità. Tra l’85 e l’89 è stato
ambasciatore negli States ed è poi passato all'incarico di
premier per un breve periodo, solo sei mesi a cavallo tra il 2010 e il
2011, al termine dei quali si dimise senza dare una motivazione chiara
ma probabilmente per non accettare alcuni diktat che cercavano di
imporgli sottobanco. Gode di una fama di uomo rigoroso e onesto, l’ex
presidente Barack Obama gli ha stretto la mano a Londra. E proprio per
questo, nella terra con l’indice di corruzione più alto nella scala
dell’ong Transparency International, la sua elezione è stata una
parziale sorpresa, lo scorso 8 febbraio.
Il favorito era infatti il presidente uscente, Hassan Sheikh
Mohamud, anche lui somalo-americano che invece ha ottenuto appena la
metà dei consensi raccolti da Farmajo e dopo quattro anni al potere si è
fatto signorilmente da parte dopo la sconfitta al secondo dei tre
turni. Quella che si è svolta nell’hangar dell’aeroporto di
Mogadiscio era pur sempre una elezione di secondo livello tra i 275
deputati e 54 senatori, delegati dei 14 mila «grandi elettori», scelti
con la formula Four.Five adottata dalle autorità di transizione che da
anni cercano di ricostruire un brandello di amministrazione statuale in
Somalia.
La formula indica la suddivisione dei delegati per le quattro
kabile o clan principali, più una quota per i cinque sottoclan o clan
minori. Ancora niente a che vedere con «una testa un voto» che
un paese dove non esiste più una anagrafe degna di questo nome con una
popolazione stimata in 12 milioni di abitanti dovrebbe adottare, nei
piani, soltanto nel 2020. Prima di allora Farmajo dovrebbe rimettere in
sesto almeno un po’ l’apparato statale, a cominciare dal pagamento degli
stipendi alla polizia locale che altrimenti o si vende alla milizia del
miglior offerente o fa rapine e ruberie direttamente in proprio,
tartassando la popolazione. E infatti il primo atto in assoluto
di Farmajo appena insediato è stato il pagamento online, tramite
telefonino, degli stipendi arretrati.
Canzoni melodiche e rap già vengono cantate in suo onore, usando come
ritornello la frase, un vero tormentone, «Ar Farmajo hala i geeyo», cioè
«portatemi da Formaggio» o anche «portatemi Formaggio»: è ciò che ha
detto delirando un contadino chiedendo di essere portato al suo cospetto
e lui, il neopresidente, lo ha assunto come suo primo dipendente.
C’è un video che narra questa storiella che ha fatto in meno
di una settimana quasi 70 mila visualizzazioni su uno dei canali Youtube
di intrattenimento che i somali guardano per evadere dalla dura vita
segnata ora anche da una pesante siccità che ha colpito il Corno
d’Africa – Ixti raam tv –, nel video, si accavallano ovili,
pastori che cantano il refrain, e Farmajo tra bandiere e magliette
azzurre con la stella bianca a cinque punte, ricordo della Grande
Somalia che oggi comporrebbe Somalia, Somaliland, Gibuti, Ogaden e parte
del Kenya. Il suo compito non è quello di ripristinare la vecchia
gloria del sultanato ma fa appello a una sovranità nazionale lacerata e
fatta a brandelli dalle continue intromissioni dei paesi confinanti, in
particolare Kenya e Etiopia, anche con il benestare di organizzazioni
internazionali come l’Igad e Amisom che così invece di stabilizzare la
Somalia l’hanno depredata contribuendo a portare acqua ai qaedisti prima
delle Corti islamiche e poi agli Shabab.
Shukri Said, attrice, blogger italo-somala, organizzatrice della conferenza della diaspora a Roma,
fa notare che oltre a dover garantire la sicurezza per le strade di
Mogadiscio e della Somalia, Farmajo dovrà far valere i diritti statuali
minimi. Perché per capire meglio cosa vuol dire «Stato fallito», una definizione più calzante sarebbe Stato privatizzato.
«Attualmente – dice Said – tutti i servizi in Somalia sono privati, non
solo la scuola e la sanità, ma persino il prefisso telefonico e il
codice di avviamento postale, si sono impadroniti di tutto». Oggi il porto di Kismayo
è in mano al Kenya che non lo molla (c’è una causa all’Aja intentata da
Mogadiscio) mentre recentemente molte altre infrastrutture fondamentali
quali lo scalo internazionale, i radar, sono finiti in mano turche,
naturalmente senza gare d’appalto.
Erdogan non a caso è stato uno dei pochissimi leader esteri ad andare in visita ufficiale a Mogadiscio.
La presenza di Ankara si è fatta sentire negli ultimi quattro anni
anche tramite gli uomini d’affari del raggruppamento Damul Jadid, vicini
alla Fratellanza musulmana, legati al presidente uscente Hassan Sheikh
Mohamud.
Molti sono i dossier scottanti che Farmajo avrà da oggi sul suo tavolo
– dai rapporti con Trump che ha inserito la Somalia tra i sette paesi
del Muslim ban ai respingimenti dei somali dal campo profughi più grande
del mondo al confine con il Kenya, il campo di Dadaab – ma, come dice
Annarita Puglielli, presidente del Centro Studi Somali dell’Università
Roma Tre, non ultima sarà la formazione di una nuova classe dirigente
locale.
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