In italiano si chiama “economia della condivisione” o come riporta Wikipedia “consumo collaborativo”: “Il termine consumo collaborativo (sharing economy)
definisce un modello economico basato su di un insieme di pratiche di
scambio e condivisione siano questi beni materiali, servizi o
conoscenze. È un modello che vuole proporsi come alternativo al
consumismo classico riducendo così l’impatto che quest’ultimo provoca
sull’ambiente”.
Si potrebbe anche definire un modello economico che non si fonda sulla produttività e la proprietà dei beni
ma sulla condivisione e lo scambio, in cui quindi la partecipazione, la
fiducia e le relazioni tra le persone risultano i pilastri
fondamentali.
Inizialmente si parlava di banca del tempo
quando le persone mettevano a disposizione il proprio tempo per fare
qualcosa per poi ricevere un altro tipo di servizio da un altro. C’era
il bike sharing, le bici “comunali” come ci sono, seppur poco usate, nella nostra città, c’era il car pooling quando aziende o lavoratori stessi si coordinavano per andare a lavoro con un’unica macchina. C’era infine il couchsurfing,
cioè il mettere a disposizione il proprio “divano” per ospitare o
essere ospitati. Erano forme primordiali di economia della condivisione
favorite dalla massificazione delle tecnologie della rete e dall’uso di
smartphone.
Poi però l’economia della condivisione
si è strutturata fino a raggiungere una diffusione e un valore
gigantesco: secondo un recente studio della Commissione Europea (Consumer Intelligence Series: fatto aprireThe Sharing economy. Pwc 2015) infatti, la sharing economy entro il 2025 accrescerà le proprie entrate fino a 300 miliardi di euro.
Pensiamo ad esempio ad Uber,
azienda californiana che fornisce un servizio di trasporto
automobilistico privato attraverso una applicazione (APP) che mette in
collegamento diretto passeggeri e autisti. Uber è stata
valutata 50 miliardi di dollari, innescando un dibattito fra coloro che
dicono che l’innovazione va fatta galoppare senza ostacoli e chi dice
che l’economia della condivisione va regolamentata perché ogni tipo di
economia alla lunga accentra i profitti e penalizza i cittadini. Di
sicuro nessuno può negare che ci siano, intanto, problemi di carattere
assicurativo, di privacy, di tasse e di sicurezza degli utenti.
Sono altrettanto innegabili, in un mondo
dove (purtroppo) siamo diventati prima consumatori e poi cittadini,
anche i vantaggi che ha portato al momento Uber: più
disponibilità, più opportunità e prezzi più bassi. Ma per giudicare la
bontà di un sistema ci sarebbe soprattutto da monitorare la gestione e
la ripartizione della ricchezza prodotta, senza per forza scadere
nell’accusa che chi vuole regolamentare è giocoforza un tifoso delle
caste. Noi senza essere simpatizzanti dei tassisti il problema della
regolamentazione ce lo poniamo. Anche perché queste aziende cercano di
porsi solo come mediatori e ci fanno accettare condizioni contrattuali
in cui loro si tirano fuori da ogni responsabilità in caso, ad esempio,
di incidente.
Ma non è solo una questione tecnico-giuridica. Prendiamo l’esempio di AirBnB, vale a dire il “portale
online che mette in contatto persone in cerca di una camera/alloggio
per brevi periodi, con persone che dispongono di uno spazio extra da
affittare, generalmente privati” (Wikipedia).
AirBnB ancora più di Uber, oltre
alla questione su tasse, sicurezza e responsabilità ha aperto un
dibattito sull’impatto sociale di questo strumento con cui ormai milioni
di persone in tutto il mondo organizzano le proprie vacanze. E non è
solo un problema di competizione con alberghi e strutture “ufficiali”,
un settore con migliaia di occupati e prezzi e salari in picchiata
(grazie anche ai voucher). Il danno principale che sta causando AirBnB
in molte città è quello dell’aumento vertiginoso degli affitti.
Specialmente nelle città turistiche, chi ha un appartamento ormai non lo
affitta più perché è molto più semplice e fruttuoso metterlo su AirBnB
e affittarlo per piccoli periodi e spesso esentasse. Il risultato è che
gli affittuari residenti di queste città sono stati espulsi dal mercato
degli affitti oppure si sono visti raddoppiare le richieste di canone
mensile.
Insomma, la questione è delicata e
complessa e vista la mole di soldi che gira intorno all’economia della
condivisione lo scontro sarà duro. Noi concludiamo con alcuni dati del
2015: Uber 160mila autisti ma solo 550 dipendenti. AirBnB 600 dipendenti con un milione di stanze. E il lavoro non ha orari né regole precise.
Articolo tratto dall’edizione cartacea di Senza Soste n.122 (gennaio 2017)
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