Pare che anche la grande stampa si stia accorgendo che, se
l’elettorato boccia con il 60% una riforma costituzionale promossa dal
(solo) partito di governo, questo non può restare senza conseguenze, che
vanno ben al di là delle dimissioni del governo. E, se alla sconfitta
referendaria ha concorso anche una parte minoritaria del partito in
questione, è abbastanza logico attendersi una scissione in quel partito.
Nel frattempo è giunta una sentenza della Corte Costituzionale
che ha affossato il già moribondo Italicum introducendo un pur
imperfetto sistema proporzionale che non determina, ma facilita, un
processo di ridefinizione identitaria dei partiti. Per cui è probabile
che la scissione del Pd metta in moto una sorta di reazione a catena per
cui a questa scissione seguiranno quelle di altri partiti, sino a
ridisegnare la mappa dell’intero sistema politico. Ed è quello che, per
ora, è successo a sinistra con le scissioni incrociate di Sel e del Pd,
la comparsa del campo progressista di Pisapia, la nascita di Si, la
nascita di nuove correnti nel Pd eccetera.
Ma non si tratta solo dell’effetto dell’esito referendario:
in questo processo di scomposizione e ricomposizione del sistema dei
partiti, giocano anche dinamiche di lunga durata. Per certi versi,
possiamo dire che il 2016 è stato una sorta di anti-1993. Lo sciagurato
referendum di Segni-Occhetto-Pannella sanzionò la fine della Prima
Repubblica e la nascita della seconda, questo referendum ha sanzionato
la fine della Seconda Repubblica, ma sarebbe superficiale dire, come
molti gazzettieri ripetono, che abbia decretato la restaurazione della
Prima.
In primo luogo perché la storia conosce pochissime restaurazioni e
sempre di breve durata, ma soprattutto perché la legge elettorale
contribuisce a modellare un sistema politico, ma solo interagendo con
altri aspetti del sistema costituzionale e, più in generale, del sistema
sociale e politico e qui siamo in un mondo molto diverso da quello del
1993. Ed occorre capire i motivi che hanno portato a questa stroncatura
della Seconda Repubblica. Anche questa è stata la bocciatura di una
classe politica, ma se nel 1993 questo avvenne sul terreno della
corruzione, in questo caso il rifiuto avviene sul terreno
dell’incapacità di gestire la crisi e, prima ancora, la globalizzazione.
Queste formazioni politiche non sono state in grado di capire
quel che accadeva e produrre idee adeguate a fronteggiare questi
fenomeni (ma potremmo dire che non hanno prodotto idee tout court), e
l’elettorato chiede soggetti politici che funzionino diversamente, ma di
questo riparleremo.
Ora veniamo a quel che accade a sinistra; riassumendo, questi sono gli spostamenti avvenuti sinora:
1. scissione del Pd che ha dato vita al Movimento Democratico Progressista (Mdp);
2. scissione di Sel-Sinistra Italiana;
3. comparsa del Campo progressista di Pisapia;
4. unificazione in Sinistra Italiana di Sel ed alcuni elementi usciti dal Pd in precedenza;
5. confluenza degli scissionisti di Sel nel campo di Pisapia;
6. confluenza del campo di Pisapia nel grippo parlamentare di Mdp;
7. ridefinizione del quadro correntizio del Pd con le candidature di
Emiliano, Orlando e forse una terza candidata piemontese che non
sappiamo se supererà le condizioni di ammissione alle primarie;
8. sostituzione di fatto del congresso del Pd con le Primarie per il segretario.
Ora vediamo che succede nei singoli schieramenti.
Pd: lo spostamento delle primarie all’ultimo fine settimana di
aprile rende poco probabili (ma non impossibili) le elezioni politiche a
giugno e se si andrà a settembre o alla scadenza naturale sarà
determinato in buona parte dal risultato di Renzi. Se il fiorentino
dovesse vincere al primo turno con una affermazione secca di almeno il
55%, è probabile che forse potrebbe strappare le elezioni a Giugno, ma
certamente le imporrebbe a settembre. I sondaggi (per quel che valgono,
soprattutto in elezioni di questo tipo) gli attribuiscono un 61% contro
il 19 di Emiliano ed il 18 di Orlando. Ma potrebbe non andare affatto
così, anche perché sono primarie aperte in cui votano anche i non
iscritti al partito e questo appuntamento si presenta molto minaccioso
per lui.
E’ più realistico pensare che Emiliano, si tenga intorno al 15% fra
voti pugliesi e qualche residuo di bersaniani restati nel partito. Non
sappiamo se la candidata piemontese ci sarà e che percentuale potrà
ottenere, fra voto regionale e voto femminile, ma è facile prevedere una
cifra inferiore al 5%. La vera incognita è Orlando che, per ora, ha
dalla sua la maggioranza della ex corrente dei giovani turchi, il
presidente del Lazio Zingaretti, probabilmente Cuperlo e, soprattutto,
ha la sponsorizzazione di antichi numi tutelari come Napolitano,
Violante e forse Bindi e Letta. Uno schieramento che forse supererebbe
il 20% ma che potrebbe crescere di molto per uno smottamento dei
renziani, con il passaggio nelle sue fila di Franceschini, Fassino,
Chiamparino, e una parte dei siciliani, oltre che l’appoggio esterno di
D’Alema. In questo caso Orlando potrebbe pericolosamente superare il 30
per andare verso il 40%. E questa sarebbe la deadline per Renzi, sia
perché, per un segretario uscente, che nella volta precedente aveva
ottenuto il 70% del partito unito, avere meno del 50% in un partito
rimpicciolito dalla scissione, sarebbe una cocente sconfitta politica,
sia perché poi si andrebbe al voto in Assemblea Nazionale, dove potrebbe
scattare, ancora una volta, l’alleanza di “Tutti contro Renzi”.
Per ora è impossibile prevedere come andrà, anche perché, trattandosi
di primarie aperte, potrebbero esserci flussi di voti da destra per
Renzi e da sinistra per Orlando; e sarà anche importante vedere in
quanti andranno a votare. Ma possiamo ragionare su tre scenari: Renzi
vince di larga misura (dal 55 in poi), Renzi vince di stretta misura
(50-55%) e Renzi perde. Del primo scenario abbiamo detto ed aggiungiamo
solo che questo significa anche che sarà lui a fare le liste e per gli
altri ci sarà poco da ridere. Il secondo scenario significa che Renzi
sarebbe un segretario semi-commissariato, che non potrebbe fare le liste
da solo e, probabilmente, dovrebbe rassegnarsi ad elezioni nel 2018.
Brutto affare per lui che si ritroverebbe a dover scegliere fra una
forzatura per imporre gruppo parlamentari fedeli, rischiando una nuova
scissione, o accettare di mediare e ritrovarsi il Vietnam parlamentare
di questa legislatura e la guerriglia interna di corrente.
Terzo scenario (Renzi perde) e questo, conoscendo l’uomo,
significherebbe con ogni probabilità una sua scissione dal Pd nel
tentativo di giocare il suo appeal personale presso l’elettorato.
Mdp: il tutto è tenuto insieme essenzialmente
dall’antirenzismo e poco altro, il che fa pensare ad una sorta di
“partito ponte” verso qualcosa altro. D’Alema ha già detto che se il
segretario diventa Orlando si può ricominciare a dialogare e Bersani ha
detto che potrebbe essere una separazione di breve tempo, ma Speranza
pare pensarla diversamente. E’ evidente che l’intento è quello di
mettere insieme un risultato significativo per trattare da posizioni di
forza, per il resto se ci fosse una vittoria di Orlando o una sua
scissione dal Pd, si aprirebbe la strada per una riunificazione. Ma
l’ostacolo sono le dinamiche obiettive di una scissione che, al pari di
quelle di una separazione legale, spingono ad odiarsi.
E’ evidente che Mdp si lancerà verso la conquista di Cgil, Arci ed
Anpi (tutte più o meno favorevoli al No nel referendum) ma in alcuni di
questi ambiti (Cgil soprattutto dove i renziani hanno consistenti sacche
a cominciare dal sindacato dei pensionati) si scontreranno
inevitabilmente con gli ex amici. Poi ci sarà la grana della spartizione
delle sedi che fanno riferimento alle fondazioni dirette da Sposetti,
che sta con i “nemici”. Quindi ci sarà la grana delle amministrazioni
regionali e comunali, dove forse si troverà un accordo per congelare le
cose come stanno, ma forse no ed allora potrebbe esserci un effetto
domino per cui cade Rossi in Toscana, ma allora diversi sindaci e
presidenti di regione del Pd potrebbero cadere per rappresaglia dove i
Mpd sono determinanti e via di questo passo. Quindi verranno le
cooperative e la lega e infine la rissa per i posti in Rai... Mica facile
separarsi.
A raffreddare la tazza bollente potrebbe esserci una diplomazia
coperta di Mdp con Rossi e soprattutto Orlando, ma non è detto che duri.
E qui è importante il rapporto con il Campo progressista che, grazie ad
una manciata di consiglieri regionali e comunali potrebbe rinsaldare i
rapporti di forza di Mdp rispetto al Pd, ma non tutto fila liscio
neanche qui: la prima grana viene dalla questione dei gruppi
parlamentari e dal voto sul governo. Infatti non sappiamo se i 18 di
Scotto sono pronti a votare per Gentiloni: per carità, non è la faccia
quello che manca, però se lo fanno perdono quel po’ di credibilità che
possono avere presso gli elettori di Sel, se, invece, votano contro di
fatto spaccano il gruppo parlamentare prima ancora di mettersi a sedere.
E per di più loro devono ricollocare i 18 deputati, piazzare Pisapia e
qualche altro, per cui avrebbero bisogno di avere una dote di circa 1
milione e mezzo di voti: chi glieli dà? Pisapia (al netto della
confluenza di Scotto) probabilmente porta il voto suo, della moglie, del
nipote e del suo portiere (ma del portiere non sono tanto sicuro), e,
semmai, porta qualche amico da eleggere con lui: un costo secco. A voler
azzardare una previsione molto generosa, tutti insieme, forse portano
200.000 voti: quelli di una lista di disturbo. Dunque gli ex Sel e lo
stesso Pisapia hanno tutto l’interesse a mimetizzarsi in una lista più
ampia, come quella con Mdp per prendere quel che gli riesce.
Infine Sinistra Italiana che, paradossalmente, esce
avvantaggiata dall’uscita di Scotto trovandosi con un gruppo
parlamentare abbastanza sfoltito ma con un buon rapporto con la base
elettorale. Per di più ha la possibilità di mangiare qualche frangia
elettorale tanto al Pd quanto ai 5 stelle. Molto dipenderà
dall’iniziativa politica che saprà avere. Inoltre, sarebbe saggio che
Rifondazione Comunista e Pci, ex comunisti italiani (o quel che resta di
entrambi) confluiscano nelle fila di Sinistra italiana, pur mantenendo
l’identità comunista (e di formule ce ne potrebbero essere diverse).
Anche perché tanto Rifondazione (che i sondaggi stimano allo 0,6% dei
voti) che gli ex comunisti italiani (che forse hanno uno 0,2-3%) non
hanno grandi prospettive davanti a sé e, dunque, non si capisce quale
funzione potrebbero svolgere da soli.
Auguri e buon quorum a tutti, cari compagni...
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