di Chiara Cruciati
Ieri l’atteso vertice di
Astana, il secondo promosso da Russia, Turchia e Iran, è stato
archiviato senza grossi risultati. Un accordo definitivo sul cessate il
fuoco non è stato raggiunto. Secondo fonti del quotidiano Asharq al-Awsat,
il comunicato finale avrebbe dovuto contenere un protocollo – redatto
dai russi – che però governo e opposizioni non hanno firmato: procedure per individuare eventuali violazioni della tregua e misure per prevenirle, accanto a sanzioni verso i responsabili.
Nessuna firma, però, perché restano, dicono fonti arabe, “profonde
divisioni nella visione dei due principali sponsor, Turchia e Russia”.
In particolare Ankara non avrebbe dato il via libera ad alcuni criteri
di monitoraggio della tregua.
Unico elemento in più è stata la promessa di Mosca di non bombardare le zone controllate dalle opposizioni, così da facilitare un
eventuale scambio di prigionieri, come proposto nei giorni scorsi da
Damasco. Da parte loro le opposizioni, per bocca dell’Alto Comitato per i
Negoziati (federazione creata dall’Arabia Saudita nel dicembre 2015 e
inizialmente rimasta fuori da Astana), confermano la presenza
all’incontro del prossimo giovedì, il 23 febbraio, a Ginevra sotto
l’egida Onu. Più dura la delegazione governativa: l’ambasciatore
siriano all’Onu e capo negoziatore, Bashar al-Jaafari, ha accusato i
gruppi anti-Assad e la Turchia di “boicottaggio del meeting di Astana” e
chiesto il ritiro delle truppe turche dal nord della Siria.
Le truppe di Ankara sono presenti ormai da agosto 2016, senza provocare particolari resistenze da parte governativa. Ora, però, la battaglia di al-Bab
si fa più stringente – con i turchi che ieri annunciavano l’ingresso
nella città di frontiera – e la possibilità di un faccia a faccia tra
esercito governativo e unità dell’Esercito Libero Siriano più probabile.
Gli Stati Uniti, esclusi da Astana, non commentano. Ma parlano: due
giorni fa il Pentagono ha ammesso l’uso di proiettili ad uranio
impoverito in almeno due raid contro l’Isis a novembre 2015. Oltre
5mila proiettili Pgu-14 da 30 millimetri avrebbero colpito dei convogli
dello Stato Islamico che, secondo il Dipartimento della Difesa Usa,
venivano usati per trasportare petrolio. Il Pentagono è stato costretto ad ammetterlo dopo che il think tank Foreign Policy
ha citato fonti interne che parlavano dell’utilizzo dell’arma, non
ufficialmente vietata dal diritto internazionale e di guerra, ma
considerato estremamente pericolosa per i civili.
Il caso esplose qualche anno dopo la guerra nei Balcani, all’inizio
del nuovo millennio, quando militari italiani di ritorno da Kosovo e
Bosnia Erzegovina cominciano ad ammalarsi. I due paesi erano stati
bombardati dalla Nato con proiettili all’uranio impoverito, derivante da
materiale di scarto delle centrali nucleari e utilizzato per la sua
consistente capacità di perforazione. Ma l’esplosione di quei
proiettili rilascia nell’aria nano-particelle di metalli pesanti,
responsabili di malattie croniche gravi sul lungo periodo.
L’uranio impoverito è stato ampiamente usato anche in Medio Oriente: in Iraq medici
e scienziati hanno registrato nel tempo un aumento innaturale e
repentino dei casi di tumori e malformazioni alla nascita, leucemia,
anemia, il collasso del sistema immunitario, a causa dell’uso da parte Usa di armi chimiche e uranio impoverito.
Immediata, dunque la reazione, delle organizzazioni internazionali:
“Siamo rimasti senza parole nel sentire che è stato usato in Siria”, ha
commentato Doug Weir, coordinatore della Coalizione per Bandire le armi a
uranio. L’Onu – nonostante non sia stato ancora messo fuorilegge – lo
ha definito nel 2014 “estremamente pericolo per gli esseri umani e
l’ambiente”.
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