di Michele Giorgio – Il Manifesto
«La sicurezza delle
frontiere meridionali con l’Egitto è una priorità e il nostro governo
farà la sua parte per garantirla», ripeteva due giorni fa ai giornalisti
il vice ministro dell’interno di Hamas, Tawfiq Abu Naim, durante un
sopralluogo al terminal di Rafah, sul confine tra la Striscia di Gaza e
il Sinai.
Reparti speciali di Hamas saranno dispiegati al più presto lungo i 12
km tra Gaza e l’Egitto con il compito di impedire ai miliziani
dell’Isis nel Sinai di trovare rifugio nella Striscia.
Hamas è pronto a «fare la sua parte» ha spiegato Abu Naim, «con il
massimo dell’impegno». Non è la solita dichiarazione di buona volontà
rivolta dal movimento islamico palestinese al regime di Abdel Fattah al
Sisi con il quale dal luglio 2013 – dal golpe al Cairo che ha rimosso
dal potere i Fratelli musulmani – tenta invano di migliorare le
relazioni.
Ora è diverso. Hamas ha bisogno dell’Egitto che pure
contribuisce al blocco di Gaza, attuato da Israele da più di dieci anni,
tenendo chiuso il terminal di Rafah. Al Sisi, riferiva due giorni fa al
Sharq al Awsat, ha dato un aut-aut ad Hamas: Gaza riceverà la quota
egiziana di elettricità, anzi il Cairo è pronto ad aumentarla, solo se
il governo islamista consegnerà 17 uomini dell’Isis ricercati che si
nasconderebbero nella Striscia.
Il Cairo assicura a Gaza appena 25 megawatt, il 6,25% del fabbisogno,
e le linee elettriche egiziane nel Sinai sono spesso fuori uso a causa
di guasti. Hamas tuttavia non è nelle condizioni di dire no al «nemico»
di cui non può fare a meno se vuole sopperire almeno in parte al buco
energetico che si è creato a Gaza con l’inizio della politica del pugno
di ferro attuata negli ultimi mesi da Abu Mazen.
Il presidente palestinese, nel tentativo di costringere Hamas
a rinunciare al controllo di Gaza, ha prima ridotto del 30% gli
stipendi di 70mila impiegati dell’Anp, poi ha tagliato il finanziamento
per il gasolio della centrale elettrica, quindi ha comunicato
che pagherà soltanto il 60% della quota di elettricità che Israele
fornisce a Gaza dove la corrente è disponibile appena 3-4 ore al giorno
e, di conseguenza, ha chiesto a Tel Aviv di tagliare il 40%
dell’elettricità per Gaza.
Misure che hanno aggravato la già difficile condizione di 2 milioni di civili palestinesi che vivono nella Striscia. Ma è
proprio su questo che punta, secondo alcuni, Abu Mazen, convinto che la
popolazione non sopporterà questo ulteriore peggioramento della
situazione e si ribellerà contro Hamas.
A Gaza nessuno crede che questo piano, vero o presunto, abbia
possibilità di successo. La pressione esercitata da Abu Mazen rende dura
la vita ai civili e sfiora soltanto Hamas, organizzato per resistere a
lunghi periodi di austerità.
Allo stesso tempo non ci sono dubbi che questo sia il momento
più difficile che gli islamisti affrontano da quando hanno preso il
controllo di Gaza. Proprio in questi giorni di giugno del 2007, lo
scontro tra il movimento islamico e Fatah, il partito guidato da Abu
Mazen, raggiungeva il punto di rottura, con scontri armati
ovunque nelle strade Gaza che fecero centinaia di morti e feriti e si
conclusero con la fuga (o la cacciata) dalla Striscia delle forze di
sicurezza legate dell’Anp.
Per gli islamisti quest’atto di forza nel 2007 fu necessario per
prevenire progetti occidentali, israeliani, e anche dell’Anp, volti a
ribaltare il risultato delle elezioni palestinesi dell’anno prima vinte
da Hamas con largo margine. Secondo Abu Mazen invece fu un «colpo di
stato» al quale non è stato possibile rimediare in dieci anni di
riconciliazioni tra Fatah e Hamas annunciate e mai realizzate. Fino al
braccio di ferro di questi mesi che si inserisce in un clima regionale
pessimo per gli islamisti palestinesi.
Il ricco Qatar, generoso sponsor assieme alla Turchia di Hamas e del
movimento dei Fratelli musulmani, fa i conti con l’offensiva diplomatica
che gli ha lanciato contro la rivale Arabia Saudita, con la benedizione
di Donald Trump, in nome di una presunta «lotta al terrorismo». Doha
tiene botta, non si fa intimidire e ribadisce la sua posizione: Hamas
non è un’organizzazione terroristica come affermano Riyadh, Israele, gli
Usa e il resto dei Paesi occidentali.
Tuttavia Yahya Sinwar, leader da qualche mese del movimento islamico
palestinese, sa che il sostegno del Qatar ad Hamas rischia di essere
sacrificato sull’altare della riconciliazione tra i petromonarchi del
Golfo.
«È un quadro difficile nel quale occorre agire con saggezza, evitando
passi falsi», esorta Ahmed Yusef uno degli ideologi della svolta
“moderata” che qualche settimana fa ha visto l’ex capo di Hamas, Khaled
Mashaal, annunciare proprio a Doha il nuovo Statuto dell’organizzazione
che, senza prevedere il riconoscimento ufficiale di Israele, accetta la
soluzione dei Due Stati. «Hamas deve fare i conti con una realtà
regionale complessa e molto mutata negli ultimi anni» aggiunge Yousef
«il nostro nuovo Statuto ora offre gli strumenti per poter avviare il
lavoro diplomatico e politico necessario per raggiungere i risultati che
vogliamo ottenere».
La linea della moderazione sulla quale spinge Yousef però non ha
ancora raccolto alcun frutto e la scelta di Hamas di proclamarsi un
movimento islamico «indipendente» dai Fratelli musulmani lascia freddi i
suoi avversari. Allo stesso tempo Hamas fa i conti anche con il
fallimento della linea più radicale. Gli ultimi dieci anni sono stati
segnati da tre devastanti offensive militari israeliane contro Gaza –
che hanno provocato molti morti, in buona parte civili – e hanno visto
Hamas dotarsi di armi sofisticate e di razzi in grado di raggiungere
ogni punto di Israele e mettere in piedi unità combattenti ben
addestrate.
Ma le prove di forza che nella testa dei leader politici e militari
di Hamas dovevano cambiare il «quadro strategico» di Gaza e «liberarla
una volta e per tutte dall’assedio» israeliano, non hanno modificato in
alcun modo la condizione della Striscia che era e resta la prigione più
grande del mondo.
Una constatazione che fanno prima di tutto gli abitanti di Gaza. Tra di essi cresce
il malcontento verso Hamas che però non si traduce in un aumento del
sostegno all’Anp di Abu Mazen vista come un altro grande «disastro» e
non come la soluzione dei problemi. Per Sami A.O., che ci ha
chiesto di non rivelare la sua piena identità, «la presa del potere a
Gaza da parte di Hamas aveva alimentato speranze di cambiamento, (Hamas)
prometteva sviluppo e l’appoggio del mondo arabo a Gaza. Invece dieci
anni dopo siamo sempre più prigionieri, senza lavoro, senza elettricità,
senza acqua potabile sufficiente e senza alcuna prospettiva. E non
possiamo più parlare liberamente perché una frase contro il governo ti
può costare l’arresto».
Per Sami e molti palestinesi la condizione attuale di Gaza è
il risultato anche delle politiche attuate da Hamas in questo decennio e
non solo del blocco israeliano. Gli islamisti smentiscono di
avere una linea autoritaria e di negare la libertà di espressione.
Sostengono che i provvedimenti restrittivi servono a garantire la
sicurezza di Gaza. Ma quando nei mesi scorsi dal campo profughi di
Jabaliya sono partite manifestazioni con migliaia di persone contro la
mancanza dell’elettricità, Hamas ha reagito schierando centinaia di
poliziotti e arrestando e pestando decine di dimostranti.
Il movimento islamico afferma di aver fatto il possibile per
difendere Gaza e di aver governato al meglio delle possibilità tra
attacchi israeliani, pressioni dell’Anp e l’isolamento al quale ora
partecipano anche i Paesi arabi.
Al contrario per il giornalista Aziz Kahlout «Hamas ha messo la testa
sotto la sabbia. Ha creduto che la sua determinazione avrebbe respinto
ogni avversità. Non ha capito che dopo dieci anni in queste condizioni
la gente di Gaza non può più andare avanti. E questo lo paga in termini
di consenso popolare». Hamas, aggiunge Kahlout, «crede ancora nel
miracolo, nell’avvento in Egitto di un nuovo presidente (dei Fratelli
musulmani) come Mohammed Morsi che lo salvi dall’oblio. Forse solo ora
comincia a capire la realtà del Medio Oriente».
Realtà che lo spingerà a cercare un compromesso al ribasso, alle condizioni di Abu Mazen? Ahmed Yousef sembra escluderlo.
«La responsabilità di ciò che è avvenuto nel 2007 è di entrambe le
parti, 50% e 50%», ci dice, «Fatah e Hamas devono mettere fine allo
scambio di accuse e lavorare nell’interesse esclusivo del nostro
popolo». Ma islamisti e Anp cercano solo di eliminarsi a vicenda.
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