Ci sono storie individuali che – in un certo momento, in un certo luogo – diventano paradigmatiche di una condizione generale e di un intero processo storico.
La testimonianza che qui vi riproponiamo ha molte delle caratteristiche per diventare un paradigma. C’è un ricercatore di lungo corso (più di dieci anni in trincea), con un curriculum di tutto rispetto ma che va progressivamente perdendo proprio l’asset principale – la possibilità di fare ricerca – dovendo adattarsi a fare lezione al posto del barone di turno.
Anche la figura del “barone” universitario è a suo modo un’icona dell’immaginario comune a studenti e assistenti. Ma nel corso dei decenni ha subito modificazioni “genetiche” irreversibili. Quelli di un tempo – sbeffeggiati dal ‘68 e messi sotto accusa dal ‘77 – erano certamente uomini che sapevano di esercitare un potere nell’accademia. Potevano infatti decidere della riproduzione di un determinato sapere, di una certa posizione culturale, della prevalenza di una “corrente di pensiero”, selezionando e formando i propri futuri sostituti.
Erano baroni del sapere, nel senso che sapevano molto e se ne servivano (anche) per dominare. Sapevano ricercare e insegnare, e non si tiravano indietro (gli assistenti facevano lezione nei seminari, non certo nel corso d’esame).
Quelli attuali – salvo numerose e lodevoli eccezioni – sono uomini di potere e basta. Spesso non all’altezza della cattedra che occupano. E del resto la moltiplicazione delle sedi, dei corsi laurea, delle cattedre, avvenuto negli anni ‘80 e ‘90, ha aperto le porte a orde di portaborse, politici trombati, improvvisatori di materie dall’incertissimo statuto scientifico (meglio non guardare troppo a lungo nell’abisso delle decine di facoltà di “scienze della comunicazione”, si rischia la vertigine...).
La storia raccontata qui è paradigmatica anche per il palese scarto tra descrizione di una condizione e impossibilità di accedere alla contestualizzazione sistemica che spiega – spiegherebbe – anche la condizione individuale stessa. Una scarto apparentemente paradossale perché la specializzazione del ricercatore-narratore – “storia dell’integrazione europea” – appare anche ad un profano come la “materia” migliore per inquadrare le ragioni storiche e strutturali alla base della progressiva demolizione dell’università italiana. Una storia ridotta a successione di trattati e direttive, secondo logiche che vengono presupposte o ignorate. In cui la dinamica sistemica non può e non deve emergere neppure agli occhi di chi ci vive dentro da ricercatore. In cui tutto “è così e basta”, non richiede spiegazioni né – tantomeno! – sapere critico.
Un futuro horror, per il sapere. Che costringe i migliori alla fuga...
Ciao sono Massimo, ero uno storico dell’integrazione europea, ho 39 anni e ho deciso di smettere con l’Università. Se partecipassi a un gruppo di auto-aiuto questo pezzo inizierebbe così. Ma non è un gruppo d’auto-aiuto, è solo la mia storia e quelle che seguono sono alcune riflessioni sul mio percorso accademico che ho deciso di mettere nero su bianco. Forse sì, anche a scopo “terapeutico”, per me stesso, certamente, ma magari non solo. Magari può tornare utile anche ad altri/e che hanno affrontato, affrontano o affronteranno le medesime difficoltà e si troveranno davanti agli stessi bivi; o quantomeno per chiudere questa esperienza senza finire per essere una sorta di meteora. Quando lasci questo lavoro, per l’Accademia smetti di esistere, sei una persona di cui è difficile parlare, o peggio, rimangono solo le “narrazioni” di chi è rimasto: “Sai, non aveva più voglia di fare questo lavoro...”, oppure “era preso da altro”, e ancora, “non ha avuto pazienza”. Sei come una lucetta lampeggiante in un vecchio film con Bud Spencer e Terence Hill (Nati con la camicia – la fissa per le fonti rimane!): “Ehi capo, hanno ucciso il nostro agente a l’Avana”. Una lucetta che prima c’era e ora non c’è più. Prima di smettere di lampeggiare, dunque, mi piace l’idea di buttar giù un po’ di pensieri, senza uno scopo o un ordine preciso. Da prendere così come sono, con imprecisioni, leggerezze e semplificazioni! È la mia storia e la racconto come voglio.
La testimonianza che qui vi riproponiamo ha molte delle caratteristiche per diventare un paradigma. C’è un ricercatore di lungo corso (più di dieci anni in trincea), con un curriculum di tutto rispetto ma che va progressivamente perdendo proprio l’asset principale – la possibilità di fare ricerca – dovendo adattarsi a fare lezione al posto del barone di turno.
Anche la figura del “barone” universitario è a suo modo un’icona dell’immaginario comune a studenti e assistenti. Ma nel corso dei decenni ha subito modificazioni “genetiche” irreversibili. Quelli di un tempo – sbeffeggiati dal ‘68 e messi sotto accusa dal ‘77 – erano certamente uomini che sapevano di esercitare un potere nell’accademia. Potevano infatti decidere della riproduzione di un determinato sapere, di una certa posizione culturale, della prevalenza di una “corrente di pensiero”, selezionando e formando i propri futuri sostituti.
Erano baroni del sapere, nel senso che sapevano molto e se ne servivano (anche) per dominare. Sapevano ricercare e insegnare, e non si tiravano indietro (gli assistenti facevano lezione nei seminari, non certo nel corso d’esame).
Quelli attuali – salvo numerose e lodevoli eccezioni – sono uomini di potere e basta. Spesso non all’altezza della cattedra che occupano. E del resto la moltiplicazione delle sedi, dei corsi laurea, delle cattedre, avvenuto negli anni ‘80 e ‘90, ha aperto le porte a orde di portaborse, politici trombati, improvvisatori di materie dall’incertissimo statuto scientifico (meglio non guardare troppo a lungo nell’abisso delle decine di facoltà di “scienze della comunicazione”, si rischia la vertigine...).
La storia raccontata qui è paradigmatica anche per il palese scarto tra descrizione di una condizione e impossibilità di accedere alla contestualizzazione sistemica che spiega – spiegherebbe – anche la condizione individuale stessa. Una scarto apparentemente paradossale perché la specializzazione del ricercatore-narratore – “storia dell’integrazione europea” – appare anche ad un profano come la “materia” migliore per inquadrare le ragioni storiche e strutturali alla base della progressiva demolizione dell’università italiana. Una storia ridotta a successione di trattati e direttive, secondo logiche che vengono presupposte o ignorate. In cui la dinamica sistemica non può e non deve emergere neppure agli occhi di chi ci vive dentro da ricercatore. In cui tutto “è così e basta”, non richiede spiegazioni né – tantomeno! – sapere critico.
Un futuro horror, per il sapere. Che costringe i migliori alla fuga...
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Ciao sono Massimo, ero uno storico dell’integrazione europea, ho 39 anni e ho deciso di smettere con l’Università. Se partecipassi a un gruppo di auto-aiuto questo pezzo inizierebbe così. Ma non è un gruppo d’auto-aiuto, è solo la mia storia e quelle che seguono sono alcune riflessioni sul mio percorso accademico che ho deciso di mettere nero su bianco. Forse sì, anche a scopo “terapeutico”, per me stesso, certamente, ma magari non solo. Magari può tornare utile anche ad altri/e che hanno affrontato, affrontano o affronteranno le medesime difficoltà e si troveranno davanti agli stessi bivi; o quantomeno per chiudere questa esperienza senza finire per essere una sorta di meteora. Quando lasci questo lavoro, per l’Accademia smetti di esistere, sei una persona di cui è difficile parlare, o peggio, rimangono solo le “narrazioni” di chi è rimasto: “Sai, non aveva più voglia di fare questo lavoro...”, oppure “era preso da altro”, e ancora, “non ha avuto pazienza”. Sei come una lucetta lampeggiante in un vecchio film con Bud Spencer e Terence Hill (Nati con la camicia – la fissa per le fonti rimane!): “Ehi capo, hanno ucciso il nostro agente a l’Avana”. Una lucetta che prima c’era e ora non c’è più. Prima di smettere di lampeggiare, dunque, mi piace l’idea di buttar giù un po’ di pensieri, senza uno scopo o un ordine preciso. Da prendere così come sono, con imprecisioni, leggerezze e semplificazioni! È la mia storia e la racconto come voglio.
Chi sono? Iniziai a
studiare la storia dell’integrazione europea all’Università e capii che
mi sarebbe piaciuto studiare e fare ricerca: fu un vero e proprio colpo
di fulmine. Dopo il dottorato – che trovai quasi per fortuna dopo averne
rifiutato uno senza borsa che mi sarebbe costato troppo – ho quindi
iniziato a “farmi le ossa”: un periodo di ricerca all’estero, le
collaborazioni, l’assegno di ricerca, i contratti d’insegnamento – tutti
step necessari sia a garantirti le risorse necessarie “per campare”,
sia ad articolare un percorso accademico attraverso il quale provare a
“entrare”, a diventare professore. Ho scritto due monografie, più di
venticinque tra saggi, articoli in riviste in italiano e in inglese e
partecipato a parecchi convegni-seminari-lezioni nazionali e
internazionali portando così in giro per l’Italia, l’Europa e negli
Stati Uniti, insieme al mio, anche il nome dell’Università per la quale
lavoravo – se interessa l’elenco quasi aggiornato di ciò che ho fatto si
trova qui. Ho anche scritto “dalla A alla Z” un progetto che ha fatto vincere una cattedra Jean Monnet.
Ma non voglio parlare di questo. Come
scrivevo sopra, nei giorni scorsi ho finalmente trovato la forza di
portare a conclusione un percorso travagliato nel quale mi dibattevo
almeno da un paio d’anni – ma le cui origini risalgono a diverso tempo
prima, dalla fine stessa del dottorato, direi oggi – e che ho cercato
costantemente di rinviare nella speranza che qualcosa cambiasse. La
svolta, il gol al novantesimo. Ma la svolta non c’è stata, niente zona
Cesarini. E quindi l’improrogabilità della scelta: restare o andar via?
Non so se ho davvero preso la strada meno battuta, come nella celebre
poesia di Frost cui tanto tengo, ma ho deciso.
Tengo subito a precisare che quanto
scrivo non vuole essere un modo, un po’ vigliacco, di togliersi qualche
sassolino a giochi fatti; né una stanca lamentela del sistema
universitario italiano, già sentita mille volte, frutto della
“delusione”, della rabbia e delle tante emozioni negative – con le quali
comunque mi sono dovuto confrontare e che devo ancora vivere fino in
fondo. Infatti, quando si prova a entrare nel mondo accademico italiano,
le sue regole, scritte e (soprattutto) non scritte, si conoscono, si
sanno. Non si può dire “io non lo sapevo”, “è stata una congiura”. Si accetta liberamente e consapevolmente di giocare:
si spera magari che quelle “storie” sentite, raccontate, viste,
riguardino altri... perché noi lo meritiamo, perché chi ce la mette
tutta... prima o poi..., perché il merito alla lunga viene fuori. È pur vero
che è un sistema che ti seduce attraverso mille tentazioni (contratti,
convegni, lezioni, pubblicazioni, ecc.) alimentando le tue speranze. Ma
sai a cosa vai incontro, anche se non in modo pienamente consapevole –
specie all’inizio.
Ma il tempo passa e quando la speranza inizia a intaccarsi, allora pensi: in fondo basta “ingoiare” ancora un po’.
E quindi appelli, seminari, lezioni gratuite grazie ai quali
l’ordinario di turno appalta parte delle ore che dovrebbe fare
direttamente perché per questo, tra l’altro, viene pagato. Lui/lei, non
tu. Sicuramente ti formano, ti aiutano a capire come impostare e
affinare il lavoro, a trovare un tuo stile, come si gestisce un
laureando, ecc. Ma senza risorse è un semplice, come si potrebbe
chiamare?, “tirocinio accademico non retribuito”?
Stage? Lo fai perché fa parte delle regole del gioco e pensi ti possa
far guadagnare punti. Ma non siamo nelle graduatorie per la scuola
pubblica: i punti non contano.
La prima cosa che mi viene in mente,
abbastanza banale lo so, è che la costante e drastica riduzione del
finanziamento dell’Università italiana, unita alla maggiore chiusura del
reclutamento (ricercatori a, b...z per non parlare del fantastico mondo
dell’abilitazione scientifica nazionale dove può capire che i commissari
abbiano meno titoli degli aspiranti abilitanti) ha fatto sì che i professori (ordinari) abbiano visto accrescere in modo esponenziale il loro già enorme potere.
Sono come l’imperatore nel Colosseo: pollice su, pollice giù. Tu puoi
andare avanti, tu no. Pochi soldi, pochissimi posti. Certo, si può
sempre acquistare un biglietto per partecipare alle “lotterie” tipo la
vicenda SIR, ma, appunto, siamo pienamente nel mondo
dei gratta e vinci. Ritenta, sarai più fortunato. Riforme sempre
sbandierate al fine di premiare il merito e come mezzo di rottura dei
rapporti di stampo feudali che si sono instaurati negli atenei. Riforme
che però hanno penalizzato solo i non strutturati – come quei casi in
cui dopo un certo numero di anni in cui hai goduto di contratti di
insegnamento non ne puoi avere più: una misura tesa a contrastare il
precariato ma che, di fatto, lo incentiva. Cornuti e mazziati.
Quello del merito è un ritornello stucchevole perché,
come già detto, pochi soldi e pochi posti fanno sì che ci sia una lotta
tremenda tra chi è dentro e chi è fuori e, ancor peggio, una lotta tra
ultimi – quanti piccoli “baroni in erba” ci sono tra i precari!
Di fatto, per entrare hai bisogno di un supervisor (un “maestro”) col
quale costruire un percorso spendibile in Accademia e di un’altra
persona che ti “difenda” nei concorsi – ergo, che ti faccia entrare o
comunque che ti garantisca posizioni e risorse. Le due figure spesso
coincidono: le eccezioni, come i concorsi dove a sorpresa non vince il
favorito di turno – espressione suggestiva per non dire “la persona per
la quale è stato indetto il concorso” – confermano la regola e
permettono al sistema di auto-giustificarsi e legittimarsi (“Vedi, c’è
un concorso pulito e aperto! Non c’è bisogno di toccare il reclutamento e
di renderlo più chiaro”).
Se non hai queste due figure sei un
orfano e per gli orfani non c’è futuro: nessuno ti adotta. Magari ti
possono dare consigli e fare da supervisor, certo, ma lì finisce. E io,
da un po’ di tempo a questa parte, sono un orfano. Non
ho un supervisor – e la doppia bocciatura che ho ricevuto all’ASN lo
certifica in modo chiaro – non ho una persona che mi difende o che mi
aiuta a trovare qualche risorsa per me (anche fossero poco più di mille
euro necessari per pubblicare il frutto di una ricerca): una formula,
quella del “non aderire e non sabotare” che è poi un esplicito pilatesco
sabotaggio. Pilatesco perché è un atteggiamento privo del coraggio
necessario per dirti “per te non c’è posto, fai altro”.
E cosa possono fare gli orfani che
ostinatamente vogliono provare comunque a costruirsi una carriera? Si
dibattono tra piccoli contratti di insegnamento e collaborazioni varie. I
primi, dandoti l’opportunità di “tenere un piede dentro” e di farti
chiamare professore, sono contratti capestro dove per pochi soldi hai
una enorme mole di lavoro da fare (es. l’ultimo contratto che ho avuto
era di 1500 euro lordi per 60 ore di lezione più una decina di appelli
d’esame) i secondi, oltre a essere tassati in modo clamoroso, come se si
trattasse di collaborazioni fatte da persone già autonome nel reddito e
nella vita, ti portano via comunque un bel po’ di tempo. Ma hanno una
sola cosa in comune: sottrarti una marea di energie per raccattare
qualche risorsa. Cosa viene penalizzato? Naturalmente la ricerca che è
quindi messa da parte. Io ho adorato ogni singola ora di lezione fatta,
il rapporto con gli studenti, o con i docenti (delle scuole) da formare,
ma negli ultimi anni la didattica mi ha impedito di continuare a
scrivere e studiare con regolarità. Ma non si campa di aria e quindi
accetti quello che offre il convento diventando quello che a me piace
definire un “marchettaro della ricerca” cioè quel
fenomeno per il quale scopri improvvisi interessi per cose di cui non te
ne importa nulla, ma magari ti danno 500 euro, magari 1.000. Magari
dopo mesi o anni dalla chiusura del lavoro, come mi è capitato diverse
volte. Il tutto in un ambiente che ti umilia, in cui devi aspettare
settimane o mesi per avere un appuntamento cruciale (a me è capitato di
sentirmi dire di farmi fissare un appuntamento a cavallo di Pasqua e
arrivato a Pentecoste stavo ancora lì a chiedere umilmente udienza senza
ricevere risposta). Un ambiente che non capisce che qualche mese di
“sfasamento” tra un contratto e l’altro o peggio, un contratto che salta
ti può creare enormi difficoltà: “ti ho detto che l’assegno non potrà
essere rinnovato?”; “ti ho detto che di quel progetto non se ne fa più
nulla?”: e tu ci avevi investito tempo e risorse. Dietro queste
dinamiche, da entrambi i lati, ci sono persone. Solo da quest’anno è
prevista l’indennità di disoccupazione per alcune figure di precari
dell’Università: sono palliativi e tagliano fuori diverse figure
professionali, come i professori a contratto – che tengono in piedi una
marea di corsi di laurea degli atenei italiani.
Certo, si può sempre andare all’esterno,
no? Bandi europei, università straniere. Su questo aspetto una cosa
voglio dirla, per quello che ho visto e per quello che ho fatto in
questi anni nell’Università italiana. Sicuramente condivido e comprendo
le motivazioni di chi ha lasciato l’Italia per l’estero (o meglio, è
stato costretto a lasciare, le libere scelte non sono tantissime), ma
negli ultimi anni si sta raggiungendo una sorta di “esterofilia” che è
imbarazzante. Grazie alla superficialità dei media e della classe
politica è passato il paradigma per cui se lavori all’estero sei bravo,
se sei rimasto in Italia, come minimo, sei complice e connivente col
sistema. L’ipotesi che sei rimasto perché volevi provare a cambiare
qualcosa o solo perché non potevi espatriare, non è presa in
considerazione. Di conseguenza, i giornali sono pieni di storie toccanti
di “poveri emigranti”, che sono costantemente presentati come
“l’eccellenza” cacciata dai baroni e dai raccomandati che sono rimasti a
fare la bella vita. Non è così o meglio, non è solo così. Sarebbe bello
che si raccontassero le storie e si provassero a risolvere i problemi
anche di chi ha dedicato tempo, risorse ed energie alle Università
italiane. Che se continuano a sfornare eccellenze che poi popolano il
mondo, forse tanto male non sono. Pur operando in un contesto
imbarazzante – sì è una ripetizione di un termine usato da poco, ma ci
sta tutta. Il contesto è imbarazzante e le responsabilità tanto gravi
quanto precise e cristalline.
Si potrebbe pensare che in fondo se non riesci a entrare puoi sempre
giocarti le competenze acquisite nel mondo del lavoro, quello vero.
Sempre ammesso che si sappia precisamente di cosa si tratta, ma che
importanza ha in Italia il dottorato
di ricerca? Ancora oggi, i formulari recitano sempre le stesse
laconiche opzioni: diploma, laurea, altro. Ecco cosa è il dottorato nel
mondo del lavoro e per le istituzioni italiane: altro. Non la
dimostrazione che sai fare un progetto, organizzare il tuo lavoro e
magari quello degli altri per raggiungere gli obiettivi, innovando così
il campo nel quale lavori. È altro, un pezzo di carta, inutile come
quelli presi in precedenza, errori di gioventù, quasi da far cancellare
sennò rischi di avere problemi a cercare lavoro, come tristemente
ammetteva l’antropologo nel primo episodio della trilogia di “Smetto
quando voglio”.
Dietro queste tare ciò che rimane
sconcertante e inaccettabile, almeno per me, è il talento buttato di una
marea di giovani studiosi, anzi non più giovani: solo in Italia sono
considerati giovani gli ultratrentenni o i quasi quarantenni come me.
Quante persone ho incontrato nei miei dieci anni di attività. Quanto
talento, quante potenzialità per innovare le discipline, la ricerca, la
didattica. Quanta rabbia nel vederli/nel vederci appassire, svanire,
lasciare. Oggi sono tra questi. In un convegno sulla storiografia
italiana e l’integrazione europea avevo messo in luce come di oltre
quaranta giovani studiosi che avevano partecipato a un ciclo di convegni
a metà degli anni 2000, solo due oggi sono strutturati – le slide di
quell’intervento sono qui. Il resto sono ancora precari o hanno lasciato.
E cosa vuol dire se a quasi quarant’anni
non hai ancora una prospettiva chiara di carriera? Semplice, che i
giovani studiosi hanno una sola scelta: o tentare la carriera, o
costruirsi una famiglia. Le due cose, troppo spesso, assomigliano a un
gioco a somma zero. Se punti sulla carriera, una famiglia forse la
costruirai molto, molto, in là, con tutto quel che ne consegue. Se
scegli la famiglia, sai che le tue opportunità di carriera si riducono
drasticamente; non c’è differenza di genere in questo: donne e uomini
sono perfettamente uguali. I figli, poi, una catastrofe! Sei pazzo?
Quanti sacrifici ha fatto la mia giovane famiglia, mia moglie e i miei
due bimbi, perché io potessi ancora tentare. Ma, ripeto, le
responsabilità sono unicamente mie non del sistema le cui regole
conoscevo perfettamente e ho accettato.
Un’altra considerazione da fare, una
delle ultime e così entro un po’ più dentro all’ambiente che conosco
meglio, è che se ti occupi di discipline umanistiche sei abbastanza
“sfigato” – ricordo che non c’è blind-refereee quindi posso usare i
termini che mi pare e piace! Già, perché da diversi anni si è assistito
all’irresistibile ascesa delle “tecniche”, della ricerca “quella vera”.
La storia? Roba per perditempo, che cosa ci si fa con la storia?.Ed
ecco che mentre viviamo nella più grande crisi dell’Europa dal secondo
conflitto mondiale e in un contesto internazionale tremendamente
difficile da interpretare, con nubi che si avvicinano da ogni lato del
pianeta, la storia è sempre più marginale: non solo nelle Università, ma
nel sistema scolastico nel suo insieme. Non esiste un professore di
storia di ruolo, non esiste uno spazio specifico per insegnare la storia
e il funzionamento dell’Unione europea. Il tutto è lasciato alle
sensibilità dei singoli docenti e nelle attività di formazione che ho
fatto, per fortuna, ce ne sono! Ma sono gocce nell’oceano. E nelle
Università si preferiscono altre discipline, come quelle politologiche o
legate alla comunicazione perché “più trendy”. Ma la profondità e la
contestualizzazione che solo la riflessione storica è in grado di dare,
che fine fanno? Gettate nello scarico, tirare la catena. Lo studio del
passato è scomodo perché troppo spesso denuda il presente, lo smaschera,
pone interrogativi ineludibili, e quindi non è pop, non si muove con
inglesismi, con slogan, con formule. Lungi da me il denigrare tutto ciò:
viva i laboratori! Viva le macchine! Ma il trattamento riservato alla
storia negli ultimi anni è stato vergognoso, senza mai porsi il problema
dell’impoverimento culturale e di memoria che questo vuoto porta con sé
– certo, le colpe autolesioniste degli storici in queste dinamiche sono
enormi, ma non voglio mica scrivere una monografia!
Ho già detto che se scegli le discipline
umanistiche sei uno sfigato. Se studi storia, poi, sei lo sfigato tra
gli sfigati. Ma se tra tutte le storie possibili, scegli quella
dell’integrazione europea, beh, allora ci troviamo davanti allo sfigato
per eccellenza. Già perché per chi si occupa di storia contemporanea
troppo spesso sei etichettato come uno che si è troppo spostato sulle
relazioni internazionali ed è troppo politologo. Ma per chi si occupa di
storia delle relazioni internazionali sei troppo contemporaneista e
comunque troppo politologo – che non guasta mai. E quindi? E quindi
dovresti essere furbo e magari ripiegare su un bello studio “classico”,
che ne so, la condizione dei ferrovieri a San Martino al Cimino durante
il fascismo, oppure la straordinaria biografia politica del portaborse
del vice segretario della sezione del partito comunista della frazione
di Borghetto. Senza un tuo specifico settore disciplinare finisci per
essere tagliato fuori dagli ambiti di riferimento. In un momento
storico, come ho detto, che richiederebbe invece ben altro.
Se vuoi lasciarti aperti più orizzonti e
non chiuderti nell’infelice mondo della storia dell’integrazione
europea puoi sempre pensare che puntando sull’interdisciplinarietà, o
sulla multidisciplinarietà, riuscirai a rendere più solide le tue
prospettive. Errore. Nonostante si sbandierino in continuazione questi
termini, la realtà è una sempre più travolgente micro-settorializzazione
e una difesa a oltranza del proprio piccolo giardino, anche se intorno
va tutto a fuoco. Se sei interdisciplinare, in altre parole, non hai
bandiera e non sei etichettabile dal sistema dei settori scientifici
disciplinari, ergo, sei a rischio “orfanotrofio”. E così il cerchio si
chiude.
Ma sono stato troppo lungo e certamente
un po’ rozzo e superficiale. Concludo. Io lascio, principalmente per una
questione di dignità e di giustizia. Ho sempre sentito miei i versi di
una canzone degli Stab (15 anni): “La voglia di viver dentro te/Onesto
come tuo padre/La voglia di esser nel giusto/Come ti insegnava tua
madre”. Le ho messe nei ringraziamenti della mia tesi di laurea, in
quella di dottorato e anche nella prima monografia pubblicata. È proprio
a quelle parole che ripenso oggi e nelle quali trovo ancora senso per
capire che ho preso la decisione giusta. Che quello che ho fatto non lo
rimpiango e non lo rinnego perché è stata una bell’avventura e mi ha
fatto crescere come persona e come uomo. Come Truman Burbank, esco dalla
porta: “Buongiorno! E casomai non vi rivedessi: buon pomeriggio, buona
sera e anche buona notte”. Io parto alla ricerca delle mie Isole Fiji.
Non è quindi una bandiera bianca, una resa, ma un issare la vela per
tornare in mare aperto. Come scrisse Paolo di Tarso a Timoteo, anche in
questo caso parole cui tengo tantissimo, “ho combattuto la buona
battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede”. Smetto quando voglio.
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