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28/07/2017

Macron nazionalizza i cantieri navali, le “regole” valgono per gli altri

In pochi giorni l’“europeista” Emmanuel Macron ha messo a segno due colpi molto “nazionalisti” che difficilmente Marine Le Pen avrebbe saputo o potuto realizzare. Entrambi i colpi hanno raggiunto i cosiddetti “interessi italiani”.

Il primo con la convocazione a Parigi di un vertice con i due schieramenti più forti tra le varie fazioni libiche (Al Serraj, imposto dalla Nato e della Ue, che comanda poco più di se stesso) e l’ex gheddafiano generale Khalifa Haftar, padrone della Cirenaica e di Bengasi, sostenuto apertamente da Egitto, Russia e vari paesi arabi del Golfo.

Il secondo, proprio oggi (27 luglio), con la decisione di ri-nazionalizzare i cantieri navali di Saint Nazaire, dopo il fallimento della coreana Stx, titolare del 66% delle azioni. Un’azienda che era stata promessa all’italiana Fincantieri in base ad accordi diretti tra l’ex presidente Francois Hollande e il primo ministro Gentiloni. L’impresa italiana – una delle poche ancora in parte controllate dal ministero del Tesoro (perché impegnata nella costruzione di navi militari, oltre che civili) – si era impegnata ad acquisire il 48% (un altro 7% sarebbe dovuto andare alla CrTrieste) e contava su questo merge per costruire un polo europeo in grado di contrastare la forza finanziare dei potenziali clienti “civili” (Msc, Carnival, ecc), che da anni giocano sulla concorrenza tra cantieri spuntando prezzi sempre più bassi e lesivi dei profitti dei costruttori.

Entrambi i colpi di Macron hanno però a che fare con il Medio Oriente, anzi con il “polo imperialistico sunnita” capeggiato dall’Arabia Saudita cui partecipano altri potenti paesi del Golfo, a cominciare dagli Emirati Arabi Uniti.

Prima di sbeffeggiare – come pure bisogna fare – gli “europeisti de noantri” che avevano festeggiato la vittoria di Macron come un trionfo europeo in grado di fermare l’“onda populista” (di destra e di sinistra, visti i successi di Corbyn in Gran Bretagna e di Podemos in Spagna), è bene guardare un po’ più da vicino i due affari combinati dal neopresidente francese.

Sulla vicenda libica non c’è dubbio che Macron abbia messo la Francia in pole position come tutor del futuro “governo unitario”, se mai si farà; il che significa diritto di prelazione sui contratti di estrazione di petrolio, gas e uranio. Ma non è affatto vero – al contrario di quanto diffuso dalla propaganda mainstream – che l’incontro tra i due boss libici sia stato il primo, né che sia tutto merito della perspicacia geostrategica francese.

Una ricostruzione dettagliata, apparsa su La Stampa di oggi, ha rivelato che in realtà Al Serraj e Haftar si erano già incontrati, ma a Dubai, nel mese di maggio. A promuovere la “stretta di mano” era stato il padrone di casa, Mohammed bin Rashid Al Maktoum, chiamato a darsi da fare per contrastare il crescere della presenza in Libia del Qatar, altro emirato petrolifero sunnita, caduto però in disgrazia per aver mantenuto rapporti industriali e politici con l’Iran sciita (giacimenti in mare tra i due paesi, sfruttati di comune accordo) e quindi colpito da “sanzioni” con l’accusa di “sostenere il terrorismo” (detto dall’Arabia Saudita fa sinceramente ridere...).

Nel corso dei due mesi successivi, gli Emirati hanno intensificato i rapporti con il ministro degli esteri francese, Jean-Yves Le Drian, per arrivare infine al molto fotografato vertice parigino.

Con queste informazioni supplementari in campo, dunque, la “genialità” di Macron sembra assai meno formidabile. In realtà, ha dato copertura a un “riavvicinamento” che è prima di tutto nell’interesse delle monarchie del Golfo, al punto da mettere in discussione l’interesse europeo in Libia, condensato dal paracadutaggio di Al Serraj a Tripoli. Tra i due contendenti, infatti, il più fragile è proprio il quisling sponsorizzato dall’Europa e dalla Nato, che è andato a Parigi senza alcun mandato esplicito a trattare da parte del Consiglio presidenziale, in cui è decisiva la forza delle milizie di Tripoli e Misurata (nemici giurati di Haftar). E se cade Al Serraj, il “polo sunnita” non avrà più, anche se momentaneamente, nessun ostacolo in Libia. Con o senza l’Isis...

Ma gli equilibri mediorientali entrano – e prepotentemente – anche nel gioco condotto su Stx-Fincantieri. Il business delle grandi navi da crociere è certamente grande e importante. I cantieri francesi rispondono appieno, già ora, alla richiesta di navi sempre più grandi, mentre il più grande cantiere italiano – Monfalcone – non ha possibilità di espansione, perlomeno a medio termine. Per capirci: a Saint Nazaire si possono già ora costruire navi da quasi 230mila tonnellate, mentre a Monfalcone si potrebbe arrivare al massimo alle 180mila.

Ma è molto più promettente il business militare. Nel 2016, per esempio, Fincantieri ha conquistato una mega-commessa del “maledetto” Qatar, che vuole ora costruire da zero un’intera marina militare. Di corsa, oltretutto, perché sarà ufficialmente necessaria per la protezione dei mondiali di calcio, nel 2022. In realtà, perché l’offensiva diplomatica saudita fa prevedere tensioni anche militari nel medio periodo. E arrivarci disarmati sarebbe in ogni caso un suicidio.

Il primo ordinativo – quattro corvette, una mini-portaerei, due pattugliatori e assistenza per i prossimi quindici anni nell’addestramento degli equipaggi e nella manutenzione – vale da solo 5 miliardi cash, da dividere tra Fincantieri e Leonardo-Finmeccanica (costruttrice di sistemi d’arma, radar, ecc).

Al completamento della flotta, con la cascata di ordinativi che potrebbero a quel punto arrivare anche da altri committenti, il solo business militare navale potrebbe fatturare una quarantina di miliardi. Senza contare che il “riarmo europeo”, deciso dall’Unione anche per impulso – negativo – della presidenza Trump, potrebbe moltiplicare a breve la dimensione di questo tipo di produzione.


Vi pare logico che la “grande Francia”, in difficoltà economiche quanto e più dell’Italia, ma dotata di un peso internazionale decisamente superiore, si lasciasse sfuggire una simile opportunità?

Formalmente, il ministro dell’economia francese, Bruno Le Maire, si è limitato ad affermare oggi che la Francia “ha deciso di esercitare il diritto di prelazione sui cantieri di Saint-Nazaire”. Ma solo come “misura transitoria”, che non mette in discussione il patto siglato con l’Italia, ma certamente consente di avere più tempo per “negoziare con gli amici italiani”.

La proposta di Macron è infatti un accordo fifty-fifty tra i due paesi, con relativa distribuzione paritaria degli incarichi dirigenziali. Mentre gli accordi siglati con Hollande lasciavano (quasi) piena discrezionalità a Fincantieri.

In più, però il ministro ha confermato che questa nazionalizzazione temporanea punta a difendere i posti di lavoro e “l’interesse strategico” della Francia. Due argomenti che demoliscono sia il “piano industriale” presentato da Fincantieri – non sono note le quantità di “esuberi” che si volevano realizzare, ma non sfugge a nessuno che Saint Nazaire viene da una lunga crisi gestita dai coreani, né che il “portafoglio ordini” sia limitato a sole 13 navi, mentre a Monfalcone la lista arriva a 33.

Ma è soprattutto l’“interesse strategico” a pesare. E non c’è dubbio che l’industria militare – come peraltro energia, telecomunicazioni, trasporto aereo, acqua, acciaio, ecc. – sia il più delicato dei settori strategici, per qualsiasi paese.

Dunque Macron è “costretto” dalla crisi economica della Francia ad agire come una Le Pen, solo con molta più agibilità internazionale rispetto alla vecchia fascista appena ripulita. Ma non c’è una grandissima distanza né logica, né programmatica.

Al dunque, però, la mossa di Macron apre un problema enorme con l’Unione Europea e le sue “regole” incardinate nei trattati. Se la Francia può nazionalizzare un’azienda industriale qualificandola come di “interesse strategico”, altrettanto possono – o potrebbero – fare tutti gli altri paesi. Su questo fronte, come su altri, è in vantaggio la Germania, che ha appena approvato una legge per impedire le scalate a quelle aziende “strategiche” per funzioni infrastrutturali (trasporti, telecomunicazioni, energia, ecc) o per know how tecnologico.

E’ dunque evidente che le stesse “regole europee” non valgono per tutti, tanto meno alla stessa maniera. Del resto, a decidere se un paese le infrange o meno sono funzionari messi lì dai “paesi che contano”. E quelli che ci ha messo l’Italia – vedi la Mogherini agli “esteri” – non possono contare granché.

Si potrebbe stilare un elenco lunghissimo di “aziende strategiche” italiane, pubbliche e private, conquistate dai francesi (pubblici e privati...) senza alcun riguardo per la “strategicità” del settore (Telecom, Alitalia, Mediaset, la stessa Acea che sta assetando i romani, ecc...), mentre in direzione opposta c’è ben poco di “strategico”. La prima preda di questo comparto sarebbe stata Stx, e si è visto come sta andando a finire.

Di certo, però, ogni ministro italico che da oggi proverà a dire “nazionalizzare non si può” – nei casi Alitalia, Ilva, banche venete o toscane, ecc. – andrà spernacchiato con forza, rabbia e devastante ironia. Servi stupidi di interessi altrui, non meritano alcun credito, né rispetto.

Questa è l’Europa che è stata costruita. Riconosce la forza dei singoli, più che le regole comuni. E’ un mercato, non un “destino”. E’ un mercato, non una “comunità solidale”. E’ un mercato regolato sulla base della forza, non uno “spazio da abitare”. E’ un mercato truccato, oltretutto. Sarebbe ora di prenderne atto, no?

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