di Michele Giorgio il Manifesto
La soluzione della crisi
innescata dai metal detector fatti installare dal governo Netanyahu
sulla Spianata delle moschee di Gerusalemme potrebbe passare per la
conclusione dello scontro diplomatico tra Israele e Giordania seguito
alla sparatoria di domenica nell’ambasciata israeliana ad Amman (due
giordani uccisi, una guardia di sicurezza ferita)?
In casa israeliana
non pochi ieri sostenevano questa ipotesi. E ad accreditarla è stato lo
stesso Benyamin Netanyahu che ha inviato suoi
emissari ad Amman per «concludere rapidamente» la crisi «e per riportare
in Patria il nostro personale» bloccato dalla Giordania decisa ad
avviare una inchiesta sulla sparatoria e a trattenere l’agente di
sicurezza che ha aperto il fuoco. Il premier israeliano ha
detto di aver assicurato all’agente «che lo riporteremo a casa e abbiamo
esperienza in materia».
Si è riferito alla crisi esplosa il 25
settembre 1997 quando nel centro di Amman due spie del Mossad che
attentarono alla vita del leader politico di Hamas, Khaled Meshal ma
furono catturate. Allora Netanyahu era al suo primo mandato da premier e
per liberare gli agenti del Mossad accettò di scarcerare il fondatore
di Hamas, lo sceicco Ahmed Yassin. Stavolta potrebbe offrire la
rimozione dei metal detector e la revoca di altre misure di sicurezza
annunciate nei giorni scorsi. Per Israele comunque sarebbe un successo
perché oltre a riportare a casa l’agente trattenuto ad Amman, avrebbe
anche modo di discutere dello status della Spianata delle moschee solo
con la Giordania, già sua partner nelle questioni di sicurezza.
Tuttavia la crisi che appena qualche anno fa si sarebbe risolta
rapidamente nella direzione voluta da Netanyahu, ora richiede maggiore
attenzione e cautela. Re Abdallah di Giordania, che pure è un alleato di ferro di Israele, deve tenere conto dei sentimenti della popolazione giordana (in buona parte di origine palestinese) scesa
in massa nelle strade di Amman e di altre città per gridare la sua
protesta per le politiche di Israele sulla Spianata delle moschee e per
l’introduzione dei metal detector. La Giordania deve tenere
fede al suo ruolo di custode delle moschee di Gerusalemme e non può
mostrarsi (troppo) compiacente verso lo Stato ebraico.
Per questo Amman
ha adottato una posizione di fermezza e chiesto di poter interrogare la
guardia israeliana che oltre a sparare al suo aggressore ha ucciso anche
il suo datore di lavoro. Israele invece sostiene che la guardia
godrebbe dell’immunità diplomatica. La questione era ancora in alto mare
ieri sera. L’emissario di Netanyahu è rientrato a Gerusalemme senza
grandi definitivi e secondo il sito Hala Akhbar, vicino alle forze armate giordane, alla guardia israeliana non sarà consentito il rientro a casa sino a quando non sarà interrogata.
A Gerusalemme intanto la mobilitazione palestinese continua.
La protesta contro le misure israeliane sulla Spianata, varate dopo
l’attacco armato del 14 luglio (due poliziotti uccisi), sta
ricostruendo, almeno a livello sociale, l’unità palestinese frantumata
dallo scontro tra Fatah, il partito del presidente dell’Autorità
Nazionale (Anp) di Abu Mazen e il movimento islamico Hamas. Fuori
dalle logiche dei vari partiti, i palestinesi hanno organizzato un
efficiente sistema di appoggio alle contestazioni intorno e dentro la
città vecchia di Gerusalemme. Un percorso indipendente che non
lascia tranquillo Abu Mazen che da un lato fa la voce grossa con Israele
– ha sospeso, per la prima volta da quando è al potere, il
coordinamento tra i servizi di sicurezza dell’Anp e l’esercito
israeliano – e dall’altro teme che la protesta palestinese possa
accendere le polveri di una nuova Intifada in Cisgiordania che finirebbe
per prendere di mira anche l’Anp. Da parte sua Israele ha
lanciato una nuova campagna di arresti dopo l’accoltellamento compiuto
venerdì sera da un palestinese nell’insediamento ebraico di Halamish – uccisi tre coloni isareliani – prendendo di mira attivisti e dirigenti di Hamas.
Abulica sino a qualche giorno fa, l’Amministrazione Trump
comincia ora a capire i riflessi della crisi per il controllo della
Spianata delle moschee e ha inviato a Gerusalemme Jason Greenblatt.
Israele intanto sonda il terreno con alcuni Paesi arabi nel tentativo
di escogitare una soluzione che da un lato consenta di rimuovere i metal
detector e dall’altro salvi la faccia al governo Netanyahu. Ieri sera
si attendeva anche l’esito di una seduta d’emergenza del Consiglio di
Sicurezza dell’Onu.
AGGIORNAMENTI
ore 15: 45 Leader religiosi palestinesi: “Continuiamo la nostra protesta”
I leader musulmani palestinesi hanno chiesto ai fedeli di continuare a
non entrare nella Spianata delle Moschee nonostante Israele abbia
smantellato stamane i metal detector.
I capi religiosi hanno chiesto stamattina del tempo per studiare i
nuovi provvedimenti messi in campo da Israele: “Noi dobbiamo conoscere
tutti i dettagli prima di decidere se pregare all’interno del complesso
[dell’Haram al-Sharif] ha detto il mufti di Gerusalemme Mohammed
Hussein.
Intervistato dal portale Middle East Eye, l’ex grande mufti di
al-Aqsa, Ikrima Sabri, ha detto che “la questione non è stata risolta.
Israele ha tolto i metal detector, ma ha messo altri pericolosi ostacoli
che cambiano lo status quo nella moschea. Al momento non sappiamo
esattamente hanno fatto, che telecamere sono e dove sono. Ma il
direttore del Waqf ci sarà un rapporto di tutte le violazioni commesse
dalle forze armate israeliane e poi decideremo come continuare la nostra
lotta”.
L’invito sarebbe stato condiviso dai fedeli che oggi hanno compiuto
le preghiere del mezzogiorno nelle stradine adiacenti alla Spianata.
ore 9:00 Tel Aviv toglie i metal detector ad al-Aqsa,
guardia di sicurezza israeliana dell’ambasciata d’Israele in Giordania
torna a casa
Israele ha annunciato ieri sera che toglierà i metal detector
istallati una settimana fa sulla Spianata delle Moschee e li rimpiazzerà
con “tecnologie avanzate” . Secondo la stampa locale, si tratterebbe di
telecamere che possono identificare oggetti nascosti. L’esecutivo ha
anche detto, però, che il numero dei poliziotti aumenterà finché le
nuove misure non saranno implementate. In una nota, il governo ha
annunciato che i cambiamenti saranno realizzati in un periodo “di sei
mesi”. Stamane all’alba, intanto, operai israeliani hanno tolto uno dei
metal detector più contestati: quello presso la porta del Leoni che è
stato al centro delle proteste palestinesi.
Il passo indietro di Tel Aviv è stato però ricompensato dal ritorno a
casa della guardia di sicurezza che domenica sera aveva ucciso due
giordani dopo essere stato attaccato da una delle vittime con un
cacciavite. Amman aveva promesso inizialmente di non farlo partire senza
prima averlo interrogato, mentre Israele aveva detto che non correva
alcun rischio perché aveva l’immunità diplomatica.
La direzione della pubblica sicurezza giordana ha detto che ad aver
provocato la sparatoria fuori l’ambasciata israeliana in Giordania
domenica è stato un litigio trasformatosi in una lite violenta. Alla
base ci sarebbe stato un ritardo nella consegna dei mobili per una
stanza da letto.
Il raggiunto compromesso tra Israele e Giordania con la mediazione
dell’inviato Usa in Medio Oriente Jason Greenblatt (che ieri ha
incontrato Netanyahu) non dovrebbe convincere però i palestinesi e i
loro leader che hanno ribadito più volte in questi giorni come l’unica
soluzione possibile sia il ritorno agli accordi di sicurezza sul luogo
sacro antecedenti al 14 luglio, quando cioè un commando palestinese ha
ucciso due soldati israeliani vicino alla Porta dei Leoni.
Mahmoud Aloul, un alto ufficiale di Fatah, è stato chiaro stamane:
ogni cambiamento delle precedenti intese sarà considerato
“inaccettabile”. “Israele è una forza occupante e bisogna togliere le
sue mani dai luoghi sacri” ha detto alla radio Voce della Palestina.
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