20/07/2017
La Genova “normalizzata” di Gabrielli
Sedici anni dopo il G8 di Genova, dopo la “macelleria messicana” messa in opera dalle varie polizie in campo, dopo il massacro nella scuola Diaz, dopo le torture a Bolzaneto, dopo l’omicidio di Carlo Giuliani, ci sono molti punti fermi che distruggono la “credibilità democratica” di uno Stato, dei suoi governi in tutto questo tempo, degli organi repressivi a partire dai massimi gradi.
1) L’Italia è stata più volte condannata, per quei fatti, dalla Corte europea di Strasburgo; molti dei torturati erano infatti cittadini stranieri incensurati nel loro paese, almeno uno (Lorenzo Guadagnucci) era un giornalista professionista nell’esercizio del suo mestiere. Impossibile dipingerli come black bloc.
2) Diversi agenti di polizia e funzionari sono stati condannati anche dalla magistratura italiana per alcuni dei fatti lì accaduti, sotto gli occhi delle telecamere e nel segreto delle stanze di caserma. Non tutti e non per i reati maggiori effettivamente commessi, come fu subito evidente.
3) Questi poliziotti condannati hanno ormai terminato il periodo di “interdizione dai pubblici uffici” e stanno per rientrare nei ruoli; quindi ricominciare a trattare questioni di “ordine pubblico” con uno spirito che – anche nel migliore dei casi – non potrebbe davvero esser definito “equilibrato e sereno”. Oltretutto con a disposizione i poteri quasi assoluti che affida loro, come a tutte le forze di polizia, il “decreto Minniti sul decoro urbano”, poi trasformato in legge da un Parlamento inqualificabile.
4) Il risarcimento delle vittime, per quanto tardivo e in generale inferiore al giusto, è in via di erogazione; per uno Stato – e i suoi corpi militarizzati – che non riconosce mai i propri torti è già questa una esplicita ammissione di colpevolezza.
Questo Stato tortura oggi esattamente come lo faceva allora. E gestisce la piazza con la logica criminale del “pattuglione” proprio come faceva allora. Più di allora – la prassi repressiva divenuta abituale ha in questi decenni colpito figure e ceti sociali di ogni tipo – il consenso intorno alle forze di polizia è ridotto ai minimi termini. E non bastano le innumerevoli fiction televisive a rovesciate questo sentimento...
Repubblica e il capo della polizia, Franco Gabrielli, hanno perciò tentato l’operazione politica a prima vista impossibile: ammettere tutto (o quasi) e descrivere i corpi militarizzati come complessivamente “sani” (“oggi come in quel luglio del 2001”!). Due pagine di intervista certamente riempite con abilità e complicità, tra giornalista e funzionario, per riproporre al livello più alto e politicamente impegnativo la solita storia delle “poche mele marce in un cesto sano”.
Gioco difficile, che richiede per esempio la sconfessione di Gianni Di Gennaro – allora nel ruolo che oggi è di Gabrielli, poi presidente di Leonardo-Finmeccanica, dove ha assunto anche il fido Gilberto Calderozzi, uno dei condannati che oggi potrebbe tornare a vestire la divisa – ma solo perché non si era dimesso, facendo così “sentire le migliaia di uomini e donne poliziotto come dei fusibili sacrificabili per la difesa di dinamiche e assetti interni all’apparato”, fino ad “imprigionare il dibattito pubblico tra un’irricevibile rappresentazione per cui il Paese sarebbe diviso tra un partito della polizia e un partito dell’anti-polizia”.
Gioco difficilissimo, che richiede il riconoscimento delle torture di Bolzaneto per quel che sono state – torture, senza altri sinonimi – e dunque anche l’approvazione di una legge qualsiasi sul tema (“buona o cattiva che sia”, non a caso) che, par di intuire, dovrà servire a stilare la lista delle “pratiche di caserma” ammissibili, in modo da evitare quelle violenze fai-da-te che sconfinano rapidamente e irreversibilmente in segni di tortura difficili da occultare ad un perito legale esperto.
Gioco difficilissimo, gattopardesco, che dichiara di voler cambiare tutto (“la gestione del G8 fu una catastrofe, ma non ci sarà più un’altra Genova”) per lasciare tutto esattamente com’è, dal punto di vista dell’intoccabilità delle forze di polizia (ricordiamo che poche settimane fa un avvocato è stato identificato in piazza e poi denunciato per aver osato criticare il “decreto Minniti”).
Significativi, in questo senso, due passaggi dell’intervista. Nel primo Gabrielli prova a smontare l’interpretazione della gestioni di piazza del G8 come “nuova gestione dell’ordine pubblico orientata dal nascente berlusconismo”, visto che “in marzo, a Napoli” c’erano state “retate negli ospedali alla ricerca dei feriti in piazza; e governava il centrosinistra”. Indipendentemente dal colore esterno del governo, insomma, si conferma che la politica repressiva dell’ultimo ventennio – almeno – è stata rigorosamente bipartisan, senza nessuna differenza effettiva per quanto attiene agli “ordini di servizio interni”. Destra e sinistra, nel Parlamento italiano, sono indicativi soltanto della posizione della poltrona rispetto al seggio del presidente, il resto sono chiacchiere per la stampa.
Per Gabrielli, naturalmente, questa convergenza parallela è determinante per assicurare la protezione legale di ogni singolo funzionario o agente, “eccessi a parte”.
Perché possa realizzarsi appieno è per lui – per lo Stato – necessario “che questo perverso incantesimo durato sedici anni si spezzi”, ossia che finisca “il senso di oltraggio nell’opinione pubblica” (per quello che i poliziotti quotidianamente fanno, per l’impunità di cui godono) e allo stesso tempo “il riflesso istintivo di ogni apparato di polizia: rifiutare di farsi processare, immaginare o peggio vedersi come corpo separato”.
Obiettivo e gioco difficilissimi da realizzare. Più realistico, secondo noi, che questo tipo di operazioni tendano a “rassicurare” una parte dell’opinione pubblica “impressionata” da mille casi Cucchi, Aldrovandi, Uva, Magherini, ecc. E a lasciare gli agenti della repressione nel loro confortevole “istinto”, che pretende come sempre l’impunità.
Un esorcismo mediatico, come le campagne contro la Brexit o per il “sì” al referendum costituzionale. Non funzionerà neanche questo...
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