Leggere la politica estera guardando
alla propaganda nel cortile di casa è inevitabile quanto rischioso.
Inevitabile perché, molto prima dell’avvento dei social media la
politica estera fa parte di un racconto che accende sempre
l’immaginazione collettiva che, se ben governata, genera consenso.
Rischioso perché anche i corpi diplomatici, che di solito hanno una
visione ben diversa dei rapporti tra paesi rispetto al racconto
ufficiale che contribuiscono a diffondere, alla fine possono essere
condizionati dalla propaganda. E con loro tutta la governance dei
rapporti bilaterali con altri paesi per non parlare di quella
comunitaria.
L’illusione dopo la vittoria di Macron
Questo per dire che, nel periodo dell’elezione di Macron, il giubilo del media mainstream italiano per la sconfitta di Marine Le Pen, tutta da giocarsi in Italia come propaganda “contro il populismo”, fece anche pensare a nuovi livelli di cooperazione con Parigi.
Ma queste ipotesi di cooperazione facevano parte del repertorio di una
mossa che Roma, qualsiasi sia l’inquilino di Palazzo Chigi, tenta da
diverso tempo. Ovvero premere su Parigi sempre in funzione di riequilibrio dei rapporti di subalternità con Berlino. E il risultato è inevitabilmente quello visto al summit di Bruxelles dell’ottobre 2011: quando parlano del governo italiano i responsabili dei governi francese e tedesco si mettono a ridere. Certo, allora, l’opinione pubblica pensò che, di fronte ad una plateale risata di Merkel e Sarkozy, il problema fosse sopratutto Berlusconi non l’Italia. Ma è accaduto con Prodi, già commissario europeo, non solo con Berlusconi. Come è andata recentemente a finire lo sappiamo: Berlusconi nel 2011 subì una detronizzazione di fatto sull’attacco alla Libia, visto che i suoi veti svanirono come neve nel deserto, per poi subire quella in parlamento dopo la famosa lettera di richieste di austerità della Bce
all’Italia (alla quale la Francia non era estranea). Di Prodi, già
alleato della penetrazione francese in Italia (dai lontani tempi della
dismissione dell’IRI), parlano oggi le cronache e lui stesso dalle
colonne del Messaggero: irritato e tradito. La Francia da partner possibile, nelle strategie fiabesche, nella realtà si fa competitor e di quelli aggressivi.
I rapporti tesi fra Italia e Francia
Questo perché i rapporti bilaterali tra
Francia e Italia riflettono, in piccolo, equivoci e problemi del nostro
paese rispetto all’eurozona. L’illusione di un processo di cooperazione, o di competizione nel quale l’Italia potrebbe giocare le proprie carte, cede presto il passo alla realtà della cruda subalternità. Nel capitalismo di oggi
i rapporti di forza tra paesi funzionano in questo modo: importando,
nelle zone ricche, la subalternità coloniale, verso paesi extraeuropei,
largamente sperimentata nei decenni precedenti. L’Europa è quindi lo
spazio dove si gioca questa subalternità. E’ in posizione dominante il
paese che esporta e investe in un altro paese, estraendo profitti da
quest’altro paese e mantenendo un attivo di bilancia commerciale nei
rapporti bilaterali. Il cono sud latinoamericano degli anni ’80 e ’90 sa
di cosa si parla. Lamentarsi, come fa la stampa nazionale, della Francia “poco liberista” che non fa investire gli italiani nel suo paese,
oltre a quella dose di vittimismo utile quando non si hanno argomenti,
significa alimentare quel distacco dalla realtà che pure è abbondante
nel nostro paese. La Francia di Macron che alimenta lo squilibrio tra
gli investimenti dei due paesi, i francesi nel nostro paese investono più del doppio degli italiani nel loro,
non è un’anomalia. E’ la norma dell’Europa come spazio della
polarizzazione della ricchezza nella subalternità del resto. Lo spazio di
integrazione europeo e il mercato unico non sono, una volta
funzionanti, un gioioso terreno di equilibrio e redistribuzione delle
ricchezze. Ci possono credere giusto i Pippo Civati. In realtà
l’Europa è un’arena, sgombrata da ostacoli, dove si esercita la
competizione aspra tra banche, imprese e sistemi paese. Grecia e Spagna,
nei confronti della Germania, anche loro ne sanno qualcosa. Lo
dimostra il fatto che il paese più forte, consapevole come tale, di
questo sistema competitivo, la Germania, non reinveste il proprio attivo
di bilancio. Proprio perché, una volta investito, ridurrebbe la
distanza tra paesi dell’Ue e dell’Eurozona cambiando la natura economica
stessa della Germania e del suo sistema bancario-finanziario (che
funziona così: merci competitive vendute all’estero, servizi finanziari
essenziali venduti all’estero). Tutti temi ostici per i mercatisti puri
di casa nostra, aggrappati furiosamente al totem di un neocapitalismo
italiano adornato di efficienza e competitività ottenute, almeno
nell’immaginazione, dall’Italia interpretando correttamente le regole
europee. Oppure tramite una integrazione politica continentale che, al
contrario di quanto desiderato, non farebbe che registrare i veri
rapporti di forza nel continente.
La natura elitaria dell’Unione Europea
L’equivoco di fondo, nel nostro paese,
passa, a parte ristrette cordate di manager di stato (come i Prodi o i
Ciampi) che a suo tempo avevano capito bene il processo, dalla profonda
incomprensione politica del processo di creazione di Ue ed eurozona.
Raccontare agli italiani, e raccontarsi come ceto politico, che il
processo di integrazione europea era un incontro, per quanto
perfettibile, tra stati ha contribuito molto a creare ostacoli materiali
rivelatisi pesanti. Il processo di integrazione europea è stato
estremamente elitario: protagonisti Bonn (allora) e Parigi, l’asse
bancario franco-tedesco, la governance continentale, qualche paese in
grado di entrare nei processi. La creazione di una moneta
unica, quindi di un regime di cambi fissi tra economie differenti,
favoriva infatti solo le economie più forti (al riparo dagli effetti
della svalutazione degli altri paesi europei), gli istituti bancari in
grado di internazionalizzarsi nel nascente mondo dei capitali senza
confini, le piazze borsistiche in grado di fornire beni e servizi
globali. Infatti oggi, dopo un quarto di secolo, vediamo: la
Germania paese leader dell’eurozona, l’asse bancario franco-tedesco
la spina dorsale dell’eurozona come dell’Ue e della Bce, Londra, senza
euro e senza che anche qualsiasi esito della Brexit la scalzi da quel
ruolo per un po’, è la piazza borsistica globale dell’Europa. Poi Olanda, vista anche la forza storica del suo sistema bancario e finanziario, e Lussemburgo, che si è ricavato lo spazio di una Tortuga dell’evasione legalizzata in Europa (esprimendo Juncker come commissario Ue, tra l’altro). Come si vede in questa lista non c’è l’Italia
che, dagli anni ’80 – salvo qualche gruppo bancario, dell’energia e del
militare – è finita travolta da una miscela di dismissioni,
privatizzazioni e chiusure corporative all’innovazione. Fenomeni diversi
ma col tratto unitario della difficoltà di adattamento al modello di
governance ue-eurozona. Certo alla nascita dell’Ue la sinistra
istituzionale italiana contribuì con il sangue: il taglio della scala
mobile, la vera controriforma del salario di allora. Bisognava
attrezzarsi al nuovo mondo comprimendo i salari per competere “in
Europa”. Come è andata, col disastro di un paese, lo sappiamo. E negli
eredi di quella sinistra, qualcuno è lo stesso personaggio di allora,
l’attenzione a cosa accade in Europa è infinitamente minore a quella
dedicata ai birignao di Pisapia.
L’eterna competizione fra Francia e Germania
Certo, in un sistema aspramente competitivo, anche nel nucleo duro Parigi-Berlino, ci sono problemi.
La Francia rispetto alla Germania ha tre punti di frizione. Il fatto
che l’euro abbia favorito, indebolendo artificialmente le merci tedesche
grazie alla presenza di economie più povere nel paniere della moneta
unica, Berlino non spiega solo perché la Germania non reinveste il
proprio surplus (che, anche, potrebbe alimentare altre economie
rafforzando l’euroe indebolendo la competitività tedesca). E’, questo il
primo punto, un fattore di squilibrio tra la crescente potenza tedesca e la stagnante potenza francese.
Di qui la Francia intende riequilibrare il rapporto con la Germania,
che è il vero governo dell’Europa, intervenendo sugli altri due punti
di frizione. Il primo è legato alle necessità di recupero dell’industria militare francese,
alle quali Berlino dovrebbe cedere in termini di finanziamento di
progetti europei (in prospettiva della moneta unica). Il secondo a
quella, essendo Berlino troppo capitale d’Europa, dell’istituzione di
un ministero degli esteri dell’eurozona che, ratificando, e
radicalizzando, i rapporti di forza nel continente, rappresenti un nuovo
protagonismo di Parigi. Certo, in un sistema finanziario europeo ancora
definito bancocentrico, l’asse delle banche franco-tedesche rappresenta
qualcosa di più di metà corona del sovrano che regna l’Europa tra
Parigi e Berlino e le sue esigenze hanno un peso di quelli che vale. Ma
Macron non è, naturalmente, estraneo a quel mondo, comunque vada.
La Francia come competitor dominante dell’Italia. Il caso libico
Il comportamento della Francia
rispetto all’Italia si spiega così in poche battute: comportarsi da
competitor dominante sulle privatizzazioni e le acquisizioni-fusioni
(acquisendo ben più di quanto concede) verso l’Italia in settori come i
bancari, le comunicazioni e l’alimentare (produzione e distribuzione). Naturalmente per rafforzarsi verso l’Italia e, quanto possibile, verso Berlino. La manovra “libica”, fatta per mettere in secondo piano l’Italia, in questo scenario ha una doppia spiegazione. Una verso il nostro paese, intervenire nel caos libico acquisendo quando previsto dai bombardamenti del 2011 (opzioni su petrolio e gas e la ricostruzione del paese), una verso la Germania ponendosi come il soggetto diplomatico-militare dell’Europa
in grado di condizionarne il futuro modello di difesa (e quello
industriale) dove Parigi vuol fare la parte del leone. Senza dimenticare
il fatto che mettere al tavolo a Parigi le due principali parti libiche
significa trattare con un mondo saudita che, per quanto in difficoltà,
conta ancora sul mercato del petrolio e su quello finanziario. Se
l’amministrazione Macron avrà fatto le mosse giuste verso l’Italia, e la
Germania, si capirà a suo tempo. Il punto è che su debito pubblico, banche e crescita, l’Italia è il sorvegliato speciale dell’Europa.
Invece di pensare alla legge elettorale nel nostro paese non farebbe
male pensare che, in Europa, si guarda con ostilità alle prossime
elezioni politiche nazionali. Anche se è vista come improbabile una
vittoria grillina, senza il doppio turno o senza un turno unico con un
premio di maggioranza praticamente incostituzionale il M5S rischia di sfiancarsi come un leone in gabbia, l’attenzione è tutta sulle possibili maggioranze “programmatiche”. Il
Pd di Renzi e Forza Italia, ad esempio, contengono un euroscetticismo
light, sulle politiche di bilancio, che non piacciono per niente a
Berlino e neanche a Parigi (che non vuole un partner italiano
protagonista volendo trattare direttamente con Berlino). Macron potrebbe
proporsi, nel caso che questo euroscettismo light prendesse il potere,
come il controllore del nostro paese in prima istanza. Tramite la
concorrenza economica, quella sul sistema bancario e quella geopolitica
sulla Libia. La vigilanza bancaria europea, visto che la crisi del
nostro sistema bancario ha incrinato le regole della banking union
voluta dalla Bce, potrebbe completare, assieme a Macron, il cordone di
controllo attorno al nostro paese.
Il balzo indietro dell’Italia
E’ evidente che, al di là delle trovate
estive per la ricerca del consenso (la legge sul taglio ai vitalizi,
Pisapia che esiste solo su Repubblica, Salvini alla ricerca di nuove
accompagnatrici per non essere travolto dal gossip) la vicenda francese ci ricorda che questo paese, comunque vada, si trova di fronte a
nuove prove di sopravvivenza dopo il decennio perduto 2007-2017. Quando
non solo, da allora, sono stati lasciati sul campo una decina di punti
di Pil, un quarto della produzione industriale e un terzo degli investimenti. Ma
sopratutto, in termini di reddito pro capite e qualità della vita
questo paese ha fatto un balzo indietro le cui conseguenze non sono
ancora realmente calcolabili. Del resto le fortune o le sfortune di un
paese si preparano in casa, nell’intelligenza che si mette a
disposizione della sfera pubblica. La Handelsblatt ha preparato
uno speciale impietoso sulla crisi bancaria tedesca del 2007, l’Italia
di quel periodo ricorda a malapena il libro sulla casta. Un
vaso di pandora di veleno politico di un paese che crede di cavarsela
inveendo all’infinito contro una casta politica, comunque tra le più
rapaci del mondo, secondo schemi di comportamento da cortile.
Evidenziarlo può apparire snob, specie a chi vive di battute sul
momento, ma che questo paese abbia scambiato i fenomeni di costruzione
del capro espiatorio, che in sè è sempre indifendibile, con quelli della
preparazione di un futuro appare davvero evidente. A chi vuol vedere.
Redazione, 30 luglio 2017
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