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28/07/2017

Trovata la legge, continua l’inganno. Perché la “legge sulla tortura” è una toppa peggio del buco

I recenti accadimenti legislativi in Parlamento hanno permesso ad un tema, annoso ma politicamente sempre attuale, di riemergere a suo modo all’interno del dibattito pubblico: parliamo dell’istituzione del reato di tortura in Italia o, per altri versi, del recepimento nell’ordinamento interno di quelle che sono state le disposizioni delle Convenzioni europee e l’orientamento giurisprudenziale della Corte in merito. Lungi da noi soffermarci, in questa sede, in analisi tecnico-giuridiche sulle proposizioni di intenti (di ciò trattasi) degli organi europei sul tema, né tantomeno è nostra intenzione ergerci a difensori delle posizioni e dell’autorità di istituzioni rappresentanti un ordinamento europeo di cui non si può andar fieri (per usare un eufemismo); sul senso dell’istituzione del reato o sulla critica, troppe volte legata al sentimento dirittoumanista più che ad un’attenta analisi politica, alla legge recentemente promulgata sono stati poi già spesi fiumi di parole da diverse associazioni e forze politiche in campo (alcune delle quali avrebbero fatto miglior figura tacendo). Rilevante, in questo contesto, ci pare invece intentare alcune riflessioni ed analisi in merito al significato politico che lo strumento della tortura ha avuto in questo paese e, conseguentemente, ai segnali di fase che una legge di questo tipo svela. Perché si parla di “strumento”? Qui occorre infatti fare la prima doverosa precisazione: si ravvisa la fattispecie riconducibile alla tortura in presenza di atti di inflizione di dolore o sofferenze acute, fisiche o psicologiche, al fine di ottenere informazioni o confessioni, a fini punitivi o intimidatori nonché discriminatori. Abbiamo già avuto modo di denunciare e segnalare pubblicamente (non solo attraverso il caso Triaca) quello che è stato l’uso dello strumento della tortura nel corso gli anni ‘70 da parte di funzionari pubblici di polizia nei confronti dei militanti all’epoca afferenti ad organizzazioni politiche di lotta armata, strumento usato sistematicamente (ed in modo ormai professionale da parte di alcuni di questi funzionari) con l’obiettivo di costringere soggetti ovviamente non collaborativi a rilasciare dichiarazioni e confessioni riguardanti l’attività che svolgevano. E’ evidente che un utilizzo così mirato non è stato frutto del sadismo di pochi funzionari, le cd “mele marce”, ma è stato l’attuazione di una precisa strategia repressiva, ragionata in funzione dell’annientamento umano e politico di coloro che, all’epoca, rappresentavano il primo nemico dello Stato; questa strategia, che è stata oggetto di compiacenze e silenzi durati decenni, non è stata certo congetturata nelle stanze dei suoi esecutori. Ad oggi una fattispecie come quella su indicata si protrae nella sua attuazione, ovviamente con i dovuti distinguo e con motivazioni ben differenti, all’interno di quelli che sono i regimi carcerari sottoposti a 41bis o per chi è sottoposto ad ergastolo (ma anche semplicemente al carcere) ostativo. Facciamo attenzione: non si approfondisce qui il tema della tortura attuata con finalità prettamente punitive ed intimidatorie o per motivi discriminatori non perché si voglia sminuire la gravità e la vergogna dell’operato delle forze di polizia in questi frangenti (vedi il caso della Diaz, per parlare di massacro di massa, o il caso Cucchi, se vogliamo riferirci ad una sevizia rivolta ad un soggetto) di cui purtroppo veniamo a conoscenza quotidianamente, ma semplicemente perché il tema meriterebbe un discorso a parte e dovrebbe concentrarsi invece su aspetti differenti. Insomma: la tortura ha cause e finalità differenti, e in ragione di queste va considerata distintamente. Ma qual è l’elemento comune rilevante in questo discorso? Che la tortura, laddove non è espressamente giustificata da motivi giudiziari, certamente non è vietata o, addirittura, punita legalmente. La nuova legge non rappresenta sicuramente un cambio di passo sul tema ma, come dicevamo, è un lampante segnale di fase politica e sociale. Tralasciando le considerazioni, anche notevolmente discutibili, dei gruppi parlamentari che la hanno criticata, ci preme sottolineare alcuni aspetti emblematici in merito; doveroso è premettere che non abbiamo mai ritenuto che lo strumento utile a combattere questa pratica fosse quello legale, sia perché sarebbe ossimorico affidarsi alla giustizia per la risoluzione di una questione di questo tipo, sia perché è sotto gli occhi di chiunque sfogli le cronache quotidiane la mancanza di volontà, più o meno diffusa negli ambienti della magistratura, di punire i colpevoli di reati che ad oggi sono pacificamente riconducibili ad essa (figurarsi dunque l’imputazione per un reato di tale gravità). La legge varata solo poche settimane fa e partorita dopo un difficoltoso iter legislativo (che l’ha privata di senso più di quanto già non fosse) presenta diverse spinosità che, per comodità, andiamo ad analizzare per punti:

- Il reato non è qualificato attraverso una fattispecie propria bensì una comune, nel senso che non vengono identificati come naturali imputati i pubblici ufficiali (coloro che per primi ed in maggior misura hanno legalmente in custodia un soggetto o che sono interessati a fargli emettere dichiarazioni e confessioni) ma qualsiasi privato cittadino, spogliando già così di senso il segnale politico di condanna all’operato degli organi di polizia in tal senso, e riproponendo la narrazione delle “mele marce” o, in questo caso, del criminale comune che potrebbe essere, parimenti, un pubblico ufficiale (con aggravante di pena) quanto un privato cittadino; fondamentale è, infatti, la specificazione per cui non sono punibili “sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti” (dunque si ammette che vi sono, sì, condotte assimilabili alla tortura, come quelle su citate, ma che sono comunque legittimamente giustificate). Già ci prefiguriamo le prime applicazioni della legge (e i primi plausi ai firmatari, indubbiamente) nei confronti di coloro che, purtroppo nella quotidianità delle cronache, cagionano sofferenze e lesioni a soggetti più deboli o sotto la loro custodia, mentre più controversa (o praticamente impossibile) sarà l’applicazione nei confronti di coloro che ne sarebbero stati i primi destinatari. Precisiamo che l’identificazione di alcune condotte, naturalmente proprie, in fattispecie afferenti la criminalità comune, è un procedimento di spoliticizzazione che abbiamo già avuto modo di appurare, ovviamente per il motivo inverso, nei diversi procedimenti penali ove alcuni compagni appartenenti ai movimenti di lotta politici e sociali si sono visti affibbiare reati comuni per condotte tipicamente e prettamente politiche.

- Altro elemento importante è la complessità dell’onere della prova, che in questo caso sta nella dimostrazione di aver cagionato lesioni, continuate e ripetute in diverse occasioni, fisiche o psicologiche, le ultime delle quali sono solo quelle più difficilmente dimostrabili, soprattutto come conseguenza diretta di esercizio di tortura.

- Non si fa alcun cenno all’esclusione di attenuanti e all’imprescrivibilità del reato, sostanzialmente i punti su cui si differenzierebbe da reati di minor entità, cioè le motivazioni che hanno spinto le vittime di Genova 2001 a richiedere a gran forza l’istituzione di questo reato.

La labilità di una legge di questo tipo non impressiona, sia perché non credevamo che, in qualche modo, la sua applicazione avrebbe potuto innescare una qualche forma di battaglia sul tema, sia perché sarebbe una colpevole ingenuità ritenere lo Stato censore dei propri organi per una condotta assolutamente non arbitraria ed isolata, bensì predisposta proprio dai suoi poteri; non è stata poi mai nostra usanza inserirci nelle schiera degli agitatori di manette. Ci colpisce, invece, quanto la critica diffusa si sia incentrata tutta su una difesa dirittoumanista piuttosto che su una denuncia politica che l’approvazione di simili norme in questi termini rappresenta. Discutere il tema della tortura racchiude in sé, infatti, la possibilità di sviluppare una riflessione importante, e forse per troppo tempo evitata o sviata, su ciò che la detenzione, in particolari regimi, ha significato per una parte dei detenuti politici di un particolare periodo storico, nonché sul significato che essa assume ancora oggi. Al presente sopravvivono regimi detentivi severi (41bis ex art.90 e dell’ergastolo ostativo) finalizzati principalmente all’annientamento morale e psicologico, nonché dell’isolamento sociale e politico, attuati attraverso le misure eccessivamente restrittive della libertà e dei diritti fondamentali che vengono inflitte, misure portate ovviamente all’estremo per indurre il detenuto alla confessione ed alla detenzione (l’unico modo per ottenere privilegi giudiziari). Il segnale dell’emanazione di una legge tanto blanda quanto cristallina nei suoi contenuti è proprio questo: ogni mezzo è utile ed ogni garanzia è derogabile se ciò avviene in nome e per conto della difesa dello status quo. E parlare di tortura e violazione dei diritti umani è lecito unicamente se utile a condannare, magari, uno Stato avverso.

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