I media italioti danno con grande enfasi il dato Istat sull’occupazione reso noto stamattina. A un profano, infatti, quei numeri sembrano davvero molto positivi, almeno sul tendenziale...
A giugno 2017, infatti, la stima degli occupati cresce dello 0,1% rispetto a maggio (+23 mila), recuperando parzialmente il calo registrato nel mese precedente (-53 mila).
Il tasso di occupazione si attesta così al 57,8%, in aumento di 0,1 punti percentuali. Spiega l’Istat che la lieve crescita congiunturale (ossia mensile) dell’occupazione è interamente dovuta alla componente femminile, mentre per gli uomini si registra un modesto calo, e interessa i 15-24enni e i 35-49enni.
Il dato che dovrebbe però attirare l’attenzione degli osservatori è un altro, e tutt’altro che positivo: aumentano i dipendenti a termine, sono stabili i dipendenti a tempo indeterminato mentre diminuisce il numero degli indipendenti (lavoratori autonomi, veri o finti che siano, basta pensare alla diffusissima pratica della partite Iva monocommittenti).
L’aumento dei contratti precari consente infatti di far passare per un “successo” una destrutturazione del mercato del lavoro che implica almeno due fenomeni totalmente negativi che vanno a sommarsi: a) la riduzione del salario medio (i lavoratori a termine o comunque con contratti precari ricevono assai meno dei salari contrattuali, senza neppure calcolare gli abusi diffusi nella microimprenditoria e non solo, vedi qui), b) tutti i contrari precari prevedono una decontribuzione previdenziale che si traduce in minori entrate attuali per l’Inps (è su questo che dovrebbe lanciare allarmi mr. Boeri, se volesse essere credibile) e più bassi assegni pensionistici per i lavoratori attuali che andranno in pensione magari tra 30 anni.
Sul piano economico, se continua ad abbassarsi il salario medio dei lavoratori ne soffriranno soprattutto i consumi; con effetti deleteri sulle imprese che producono prevalentemente per il mercato interno e sono in genere anche quelle che fanno un ricorso sistematico e intensivo ai contratti precari. Una spirale negativa in cui le imprese, per risparmiare sul costo del lavoro e aumentare i profitti, tagliano i salari (e quel che resta dei diritti), ma così facendo riducono anche la “clientela” che può acquistare i loro prodotti. E via verso il baso...
L’aumento apparente dell’occupazione vive la stessa dinamica anche sul periodo trimestrale. Tra aprile-giugno si registra infatti una crescita degli occupati rispetto al trimestre precedente (+0,3%, +64 mila unità), determinata dall’aumento dei dipendenti, sia permanenti sia, in misura maggiore, a termine. L’aumento riguarda entrambe le componenti di genere e si concentra quasi esclusivamente tra gli over 50.
Il motivo di questa “preferenza per gli anziani” da parte delle aziende l’abbiamo spiegata mille volte: da un lato c’è la “legge Fornero” che blocca la possibilità di andare in pensione e inchioda al lavoro fino al limite dei 67 anni (quasi...), dall’altra si vuole personale che conosca la mansione e non abbia bisogno di tempi di “apprendistato”.
Ne consegue un (modesto) calo dei disoccupati in pianta stabile. Dopo l’incremento rilevato a maggio, la stima delle persone in cerca di occupazione a giugno cala infatti del 2,0% (-57 mila), tornando su un livello prossimo a quello di aprile.
Il tasso di disoccupazione ufficiale, pertanto, scende all’11,1% (-0,2 punti percentuali); anche il tasso di disoccupazione giovanile torna a scendere (-0,1 punti), attestandosi al 35,4%.
Il criterio statistico – deciso dall’Eurostat, ovvero dall’Unione Europea – è lo stesso vigente negli Stati Uniti, ed è altamente truffaldino. Citiamo dal glossario Istat:
“Occupati: comprendono le persone di 15 anni e più che nella settimana di riferimento:
- hanno svolto almeno un’ora di lavoro in una qualsiasi attività che preveda un corrispettivo monetario o in natura;Come si vede, volendo sintetizzare, basta un voucher di un’ora alla settimana per essere definito “occupato”. Ovvio che con questo il numero cresca tantissimo, anche se – con un voucher di un’ora alla settimana – sei tecnicamente un morto di fame... Disoccupazione reale e disoccupazione statistica hanno così iniziato a divergere radicalmente, proprio come negli Usa, dove con una disoccupazione ufficiale vicina al 4% (ottima, no?) si stimano circa 100 milioni di disoccupati reali.
- hanno svolto almeno un’ora di lavoro non retribuito nella ditta di un familiare nella quale collaborano abitualmente;
- sono assenti dal lavoro (ad esempio, per ferie o malattia). I dipendenti assenti dal lavoro sono considerati occupati se l’assenza non supera tre mesi, oppure se durante l’assenza continuano a percepire almeno il 50% della retribuzione. Gli indipendenti assenti dal lavoro, ad eccezione dei coadiuvanti familiari, sono considerati occupati se, durante il periodo di assenza, mantengono l’attività. I coadiuvanti familiari sono considerati occupati se l’assenza non supera tre mesi.”
Il segreto di questa gigantesca differenza sta tutta in un’altra definizione statistica: gli “inattivi”, che non lavorano e non lo cercano. Ovvio che con l’esaurirsi delle possibilità garantite dal “sistema famiglia” (padri o nonni pensionati che muoiono, per esempio), anche gli “inattivi” siano costretti a muoversi sul mercato del lavoro.
Ciò nonostante, la stima degli inattivi tra i 15 e i 64 anni a giugno sale dello 0,1% (+12 mila), sintesi di un aumento tra gli uomini e un calo tra le donne. L’inattività risulta in calo tra i 15-24enni e i 35-49enni (a conferma della spiegazione che abbiamo appena dato) e in crescita nelle restanti classi di età. Il tasso di inattività è pari al 34,9%, invariato rispetto ad maggio.
Ma il 35% di inattivi va calcolato, socialmente, come un 35% di disoccupati reali (13,5 milioni) che si aggiungono all’11,1 di disoccupati “ufficiali” (altri 4 milioni e mezzo, circa). In pratica una persona su due è senza un lavoro.
18 milioni di disoccupati. Un vero “successo”, non c’è che dire...
Il rapporto completo dell’Istat: CS_Occupati-e-disoccupati_giugno_2017
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