di Michele Paris
Nell’arco di poche ore, questa settimana l’amministrazione Trump ha
preso due provvedimenti diametralmente opposti in merito all’Iran che
mostrano tutte le contraddizioni del governo americano sull’approccio da
tenere nei confronti di questo paese e dell’intera regione
mediorientale.
Lunedì, la Casa Bianca aveva dovuto certificare
nuovamente il rispetto dell’accordo sul nucleare del 2015 (JCPOA) da
parte di Teheran. La decisione sarebbe stata presa in maniera riluttante
dal presidente USA, il quale fin dalla campagna elettorale dello scorso
anno si era impegnato a uscire dall’accordo di Vienna.
Secondo
le ricostruzioni fatte dalla stampa americana, Trump avrebbe cercato di
passare da subito alla linea dura, ma alcuni esponenti di spicco della
sua amministrazione – dal segretario di Stato, Rex Tillerson, a quello
alla Difesa, James Mattis, dal consigliere per la sicurezza nazionale,
H. R. McMaster, al capo di Stato Maggiore, Joseph Dunford – lo hanno
convinto a confermare almeno momentaneamente la validità dell’accordo.
Con
la stessa Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica delle Nazioni
Unite che continua a garantire il comportamento conforme all’accordo
dell’Iran e gli altri cinque paesi coinvolti nelle trattative (Russia,
Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania) intenzionati a proseguire sulla
strada della distensione, alla fine Trump non ha potuto che adeguarsi.
Il
Congresso americano stabilisce che la Casa Bianca debba notificare ogni
90 giorni la conformità dell’Iran alle condizioni del JCPOA. Quella di
questa settimana è la seconda certificazione fatta da Trump e anche la
prima volta la sua decisione in senso positivo era arrivata con una
serie di recriminazioni e riserve.
Che la Casa Bianca abbia agito
in questo senso solo perché costretta dalle circostanze è apparso
chiaro quando, martedì, il dipartimento di Stato, assieme a quelli di
Giustizia e del Tesoro, ha annunciato nuove sanzioni economiche contro
la Repubblica Islamica.
L’azione è tecnicamente svincolata
dall’accordo sul nucleare ma, come risulta evidente, nelle intenzioni
dell’amministrazione Trump serve a incrinare ancora di più le relazioni
bilaterali e a preparare il terreno per un’accelerazione dell’offensiva
contro Teheran.
Le nuove misure punitive colpiscono 18 tra
“entità” e individui iraniani che Washington ritiene coinvolti in
attività quali lo sviluppo del programma missilistico, l’acquisto di
armi e il furto di software. Non solo, a essere colpite dalle sanzioni
sono anche una compagnia turca e una cinese che il Tesoro americano
sostiene abbiano fornito materiale alle forze armate iraniane.
In
realtà, tutte le attività considerate illegali dagli USA appaiono
interamente legittime. La vera ragione della persistente ostilità
americana nei confronti dell’Iran si può leggere tra le righe del
comunicato ufficiale che ha accompagnato le sanzioni. Per il governo
americano, cioè, le misure scaturiscono dalle “gravi preoccupazioni che
suscitano le attività maligne della Repubblica Islamica in Medio
Oriente” che “minacciano la stabilità, la sicurezza e la prosperità
della regione”.
Al
di là del fatto che questa descrizione si adatta alla perfezione alle
attività destabilizzanti proprio degli Stati Uniti nel vicino Oriente,
essa spiega chiaramente le ragioni dell’ostilità di Washington verso
l’Iran. Nonostante l’accordo sul nucleare, Teheran continua in sostanza a
rappresentare il principale ostacolo agli interessi degli USA e dei
loro alleati in Medio Oriente.
Il riferimento dello stesso Trump
alla violazione da parte iraniana dello “spirito”, se non della lettera,
del JCPOA rivela come una parte della classe dirigente americana,
quella contraria fin dall’inizio al negoziato con Teheran, abbia
accettato a denti stretti l’intesa sul nucleare a condizione di
utilizzarla come strumento di pressione per far desistere la Repubblica
Islamica dalle proprie ambizioni di potenza regionale.
Il
problema per Washington è che l’accordo ha innescato un processo di
integrazione economica, sia pure alle primissime battute, dell’Iran con
molti alleati degli Stati Uniti, per non parlare del consolidamento dei
legami che già manteneva con paesi come Russia, Cina, India o Turchia.
Soprattutto
l’Europa appare sempre meno disposta a rivedere i termini del JCPOA,
visto che numerose aziende di svariati paesi stanno già facendo a gara
per entrare nel mercato iraniano, da cui invece quelle americane restano
in larga misura escluse. Proprio alcuni giorni fa, ad esempio, il
colosso francese dell’energia Total ha sottoscritto un accordo da quasi 5
miliardi di dollari con la cinese CNP e l’iraniana Petropars per lo
sfruttamento del giacimento di gas naturale South Pars.
Se
l’amministrazione Trump, con il sostegno pressoché unanime del
Congresso, intenderà proseguire sulla strada del confronto con Teheran,
risulta evidente che quello che si prospetta è l’apertura a tutti gli
effetti di un nuovo fronte nello scontro tra alleati in Occidente. Negli
ultimi mesi sono state d’altronde sempre più numerose le voci dei
leader europei che hanno celebrato l’accordo con l’Iran e condannato
apertamente le posizioni americane.
Lo stesso governo della
Repubblica Islamica ha fatto i propri calcoli in considerazione dei
mutati equilibri internazionali, tanto che questa settimana il ministro
degli Esteri, Mohammad Javad Zarif, non ha avuto scrupoli a criticare
l’amministrazione Trump, oltretutto nel corso di una visita negli Stati
Uniti.
Zarif ha affrontato in varie occasioni la questione delle
sanzioni e del JCPOA durante discorsi tenuti presso istituti e “think
tank” americani o nel corso di interviste ai media d’oltreoceano,
rimandando le accuse al mittente e giungendo egli stesso a minacciare
una comunque improbabile uscita di Teheran dall’accordo.
La
partita del nucleare iraniano non è ad ogni modo una questione isolata,
ma si inserisce nel quadro più generale del sovrapporsi degli interessi
di Washington e Teheran in Medio Oriente. La sorte del JCPOA, anche se
non dipende unicamente dagli Stati Uniti, sarà infatti da collegare alle
prossime mosse dell’amministrazione Trump nella regione.
Lo
scontro tra gli USA e i loro alleati contro l’Iran e l’asse sciita, dal
quale derivano in sostanza le tensioni sulla vicenda del nucleare di
Teheran, continuerà così a giocarsi su tutti gli scenari più caldi,
dalla guerra in Siria a quella nello Yemen, dalla sfida per garantirsi
l’influenza sull’Iraq alla crisi che sta lacerando il gruppo delle
monarchie sunnite del Golfo Persico.
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