Un altro lutto tra i musicisti della generazione di Seattle con il solito inquietante copione
Il 18 maggio Chris Cornell è morto, da solo, in una camera d’albergo. Ovunque si possono leggere coccodrilli accoratissimi che celebrano una delle ultime icone e la morte di un movimento, il cosiddetto grunge, che ha segnato qualche generazione.
Nel corso degli anni molti si sono trovati ad ammettere che il grunge probabilmente non è mai esistito: è stata solo una fortunata congiuntura spazio-temporale che ha visto nascere (e morire) nell’arco di pochi anni e pochi km (con qualche eccezione britannica) alcune delle più entusiasmanti band del decennio.
E’ vero che musicalmente, per gli ascoltatori più smaliziati, le quattro grandi band di Seattle avevano poco in comune: i primi Nirvana erano un gruppo indie-punk vicinissimo ai suoni della SST, i Pearl Jam una versione hard di Springsteen, gli Alice In Chains una band heavy metal sotto acidi e i Soundgarden di Cornell i più mainstream tra gli eredi dei Black Sabbath.
Ma grunge non è stato un movimento musicale. E’ stata un’idea. Ed è stata la messa in musica e parole di una generazione, la mia, che è stata sconfitta. Una generazione a cui hanno tolto il futuro e che (non) ha trovato risposte nelle parole di Andrew Wood e di tutte le altre vittime degli anni ’90.
Alla fine degli anni ’80 il rock mainstream americano era rappresentato dai capelli cotonati e i lustrini di Motley Crue e Poison o, al limite, la versione per giovani romantici dello street rock rappresentata dai (mitologici, niente da dire) Guns ’n’ Roses. Le band di Seattle hanno rappresentato, per tutti, la ribellione, anche estetica, all’establishment rock: via i lustrini e gli spandex e via libera al look della classe media di provincia, i vestiti che si trovavano negli store di periferia. E’ stata una scelta naturale: fuori dalle grandi metropoli culturalmente vive ci si vestiva (e ci si veste tuttora) così. Purtroppo per i protagonisti il mercato reagisce sempre più in fretta di tutti. Jeans e camicia di flanella sono diventati i nuovi spandex, l’icona estetica di tutto un movimento che, in pochi anni, è diventato mondiale. E’ diventato una moda, malgrado i suoi protagonisti.
In questi giorni molti necrologi celebrano il mito di Chris Cornell, un cinquantenne che, come disse Cobain di sé nella sua ultima lettera, si era ritrovato a timbrare il cartellino. Non c’è niente di romantico ed eroico nella morte delle rockstar. C’è spesso esclusivamente la solitudine, una cosa molto poco pop, molto poco glamour, molto poco modaiola e molto umana.
Si legge in giro che è stata una generazione di rockstar che ha provato a ribellarsi al giogo del mercato e ne è rimasta schiacciata. E’ probabilmente vero, in molte forme. Dall’inadeguatezza di Cobain ad essere una star e la sua incapacità di provare empatia per una massa anonima che lo venerava (e lo venera ancora), ai più materiali problemi di Staley, Weiland e Hoon, la generazione delle star degli anni ’90 ha fatto vedere che il luminoso mondo della musica non fa prigionieri. Fagocita e rigetta chi non ne vuole essere all’altezza.
Cornell ci ha provato e, per molti anni, ci è riuscito. I primi dischi dei Soundgarden restano il più bell’esempio di hard sabbatthiano degli anni '90, soprattutto per merito della chitarra lisergica di Thrail e dell’incredibile voce, acidissima, di Cornell. Poi la consacrazione e il grande pubblico con Superunknown: la stessa ricetta rivestita di pop. Black Hole Sun resta, e sarà sempre, un inno per una generazione. E non è possibile non citare Temple Of The Dog, supegruppo prima del tempo, nato come tributo a Andrew Wood contenente l’ideale inno del grunge tutto. Il titolo dovreste saperlo.
Negli anni del riflusso Cornell si è riciclato con Timbaland (il picco più assurdamente negativo della sua carriera) dopo aver fatto parte della ignobile operazione Audioslave, per poi tornare a fare, con grande mestiere e pochissima anima, quello che sapeva fare.
Non è bastato per chi ha fatto parte della generazione che ha sublimato la sconfitta di tutti.
Non poteva che finire in questo modo.
“I’m above / Over you I’m standing above / Claiming unconditional love / Above“
per Senza Soste, Luis Vega
20 luglio 2017
Fonte
Nell'informazione alternativa, di parte (sinistra), chiamiamola come ci pare, un articolo così mancava.
Peccato sia arrivato con ritardo, non tanto rispetto al chiacchiericcio della rete 2.0 (di quello c'importa sega), quanto rispetto la sedimentazione che il frenetismo delle nostre società ci impone.
Marcare meglio il tempo, forse avrebbe consentito di destrutturare uno dei capisaldi ideologici ancora fondanti il consenso di cui tutt'ora gode, seppur tra scricchiolii sempre più intensi, il sistema dominante.
Quasi certamente sembrerà banale, ma il fatto che uno degli strumenti culturali prìncipi della diffusione dello "stile di vita" anglosassone – la musica – cozzi sempre più spesso nel "non se ne esce" (l'ultimo in ordine di tempo è Chester Bennington), è una delle dimostrazioni più plastiche del capolinea cui è giunta l'attuale fase del modo di produzione capitalista.
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