A voler guardare dietro gli slogan, però, si scopre rapidamente che il “meno tasse” non è “per tutti”. Per chi già oggi paga poco, perché guadagna pochissimo, non cambierebbe praticamente nulla. Per chi paga un po’ di più – fino ai 25-30.000 euro l’anno lordi, tipo 1.600-1.800 euro netti al mese – ci sarebbe un modesto guadagno (un paio di bollette, o poco più). Per chi guadagna parecchio, invece, il guadagno sarebbe direttamente proporzionale alla dimensione del reddito posseduto. Se hai milioni, guadagni (risparmi) milioni.
Una tassa uguale per tutti aumenta le disuguaglianze, in una popolazione che non abbia anche un reddito uguale per tutti. Soprattutto, destabilizza i conti dello Stato, che sarebbe dunque costretto a tagliare una quantità rilevante di spese. Quali? Qui entra in gioco il toto-tagli, con i sedicenti “di sinistra” che chiederebbero di tagliare le spese militari e la destra a pretendere il taglio delle spese per l’accoglienza, le pensioni, la sanità, l’istruzione, ecc. Sarebbe dunque una discussione sul terreno del nemico, destinata a perdere comunque, perché la tassa uguale per tutti è un classico obiettivo di destra.
E’ non a caso il contrario di quanto scritto nella Costituzione, non in una legge qualsiasi. “Art. 53. Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”.
La flat tax – così viene chiamata dai tecnici per non far capire di che si tratta – è apertamente e spudoratamente incostituzionale, e c’è da credere che qualsiasi ricorso contro una eventuale legge che la istituisse sarebbe impugnata e portata davanti al giudizio della Consulta.
Per orizzontarvi vi proponiamo qui due articoli, apparsi su Alganews e il manifesto, a firma rispettivamente di Alberto Tarozzi e Laura Pennacchi. Personaggi molto diversi (la Pennacchi ha fatto parte a lungo del filone Pci-Pds-Ds-Pd), ma entrambi allarmati dalla progetto politico incarnato dall’idea stessa di flat tax. Vanno dunque letti “facendo la tara” – nel secondo caso – e distinguendo tra contributo informativo e “proposte per la sinistra”, ovviamente discutibilissime.
*****
La chiamano flat tax ma sarebbe macelleria sociale
Alberto Tarozzi
Per tutti coloro che, come Salvini, ma anche qualche 5Stelle e diversi Pd, ritengono che sia possibile abbassare le tasse senza ripercussioni sulle fasce più povere della popolazione, giunge opportuno il chiarimento di Laura Pennacchi, sul Manifesto.
E’ un pezzo lungo e articolato, ma fondamentale, che richiede una sua divulgazione per quel che riguarda i tratti essenziali.
Paradossalmente il lato più interessante è costituito dalle citazioni fatte in materia da un centro studi neoliberista doc (Istituto Bruno Leoni), che meglio di chiunque altro spiega dove bisognerebbe andare a prendere i soldi in meno che lo Stato ricaverebbe dalle tasse.
Finalmente uno studio cinico e serio che spiega come sia illusorio pensare che, abbassando le tasse all’aliquota unica del 25%, già di per sé penalizzante per le fasce più povere, tutti pagherebbero con gioia, l’evasione sparirebbe e i conti tornerebbero come d’incanto.
L’Istituto Bruno Leoni precisa invece che di risparmiare soldi ce ne sarebbe bisogno eccome e indica dove andarli a prendere: qui viene il bello, o se preferite il tragico.
L’Istituto propone infatti che per coprire le mancanti entrate fiscali vadano “a-bo-li-te” le attuali prestazioni assistenziali, sostituibili da misure per gli incapienti (il così detto “minimo vitale”) tutte da verificare per entità e criteri di assegnazione.
Si tratta di una vera e propria bomba: le attuali prestazioni assistenziali ammontano a ben 40 miliardi e oltre e coprono le seguenti voci: assegni familiari, indennità di accompagnamento, integrazioni al minimo delle pensioni, pensioni sociali e, presumibilmente, di reversibilità.
Più che una macelleria sociale la loro abolizione, sostituita da non si sa bene che cosa e quanto, costituirebbe una vera tragedia per la popolazione povera.
Laura Pennacchi ricorda che anche a sinistra sarebbe il caso di tenere in seria considerazione le discriminanti politiche imposte dalla questione fiscale. Ma il dibattito su Pisapia e dintorni sembra alimentare maggiormente altri interessi nel ceto politico renziano e di chi dice di opporglisi.
Speriamo che l’appello della Pennacchi, che definisce di gran lunga prioritari gli investimenti rispetto ai tagli fiscali, non cada inascoltato.
*****
Piano d’investimenti pubblici e tasse, nodi ineludibili per la sinistra
Laura Pennacchi
Deficit di pensiero. Senza più discriminanti, «diminuire le tasse» è l’unico slogan dominante
In barba a tutte le nuovistiche pretese rottamatrici, ormai è chiaro che nella politica italiana a difettare sono proprio i progetti e che la prossima campagna elettorale sarà dominata da una idea vecchia come il cucco, quale il mantra della riduzione indiscriminata delle tasse.
Riproposto nelle forme più demagogiche anche sotto le vesti di ricorso alla flat tax, un’idea che nasce dal cuore della destra ma a cui ha occhieggiato lo stesso Renzi. Questo deficit di pensiero e di ideazione è tanto più grave a sinistra, dove esso spiega ciò che altrimenti rimarrebbe inspiegabile: il cinismo con cui da tutte le parti – sia nel Pd di Renzi, sia nei fuoriusciti di Mdp, sia nella sinistra estrema – si rinunzia a costruire una coalizione larga di centrosinistra e si punta solo a strappare qualche voto all’immediato vicino dando per scontato che le elezioni siano già perse, bastonandosi di santa ragione tra più affini invece di combattere soprattutto sul piano ideale e programmatico la destra e il movimento 5Stelle (non a caso sostenente una bandiera – il «reddito di cittadinanza», che è un sussidio flat – speculare a quella della destra).
Eppure non è in alcun modo sottovalutabile la pericolosità di una proposta come la flat tax, nell’ipotesi dell’Istituto Bruno Leoni un’aliquota unica del 25% per Irpef, Ires, Iva, sostitutive ecc, associata a un trasferimento monetario agli incapienti. Perseguire una simile ipotesi porta a due esiti entrambi estremamente negativi. Il primo è una drammatica alterazione della distribuzione del reddito, già tanto disegualitaria e squilibrata, a ulteriore favore dei ricchi e a danno dei ceti medi: Baldini e Giannini su Info La voce segnalano che una coppia di dipendenti del Nord con due figli con 40 mila euro di reddito guadagnerebbe 268 euro, mentre la stessa famiglia con reddito più che doppio (80 mila) ne guadagnerebbe quasi 9 mila.
Il secondo esito negativo è una perdita di gettito (le entrate pubbliche complessive si ridurrebbero di più di 95 miliardi di euro l’anno, lo spazio di quattro-cinque finanziarie!) di tale entità da restituire attualità al motto starving the beast, «affamare la bestia governativa», sottraendogli le risorse necessarie a finanziare servizi pubblici e prestazioni sociali. Non si deve dimenticare che l’espressione entrò in auge all’epoca di Reagan, quando nella cerchia dei consiglieri repubblicani nessuno credeva che i tagli fiscali del 1981 potessero essere finanziariamente sostenibili (e in effetti non lo furono), ma si consideravano i tagli stessi come mezzi per formare disavanzi tali da affamare il bilancio pubblico, utilizzando l’«affamamento» come leva per abbattere la spesa. Il tutto nella più classica logica ostile all’esercizio della responsabilità collettiva incarnata dalle istituzioni pubbliche: «meno tasse, meno regole, meno stato, più mercato», associando l’idea che la tassazione sia intrinsecamente dannosa alla volontà di ridurre al «minimo» il ruolo degli stati e dei governi (nella proposta dell’Istituto Leoni la perdita di gettito sarebbe finanziata per due terzi con l’abolizione delle prestazioni assistenziali esistenti – assegni familiari, indennità di accompagnamento, integrazione al minimo, pensione sociale, ecc. –, per un terzo con altri tagli di funzioni pubbliche).
Dunque, le critiche che dipingono la flat tax come «ambiziosissima» ma irrealistica o intempestiva, perché troppo costosa, sono assolutamente insufficienti e non colgono nel segno. Perché non è solo questione di promesse demagogiche irrealizzabili, né è solo questione delle risorse mancanti con cui finanziare le politiche di tagli fiscali. In gioco c’è molto di più: queste politiche sono profondamente sbagliate e tali rimarrebbero anche se ci fossero le risorse per realizzarle, sia sotto il profilo redistributivo, sia sotto il profilo dell’impatto ipotizzabile sull’economia e sulla società. In primo luogo per il disorientamento culturale che ne scaturisce: le visioni neoliberiste, di cui è figlia la flat tax, infatti, hanno fatto sì che un dibattito meditato sulla tassazione scomparisse dalla scena pubblica. L’inerzia di una riflessione pubblica sulla tassazione ha prodotto quel fenomeno generalizzato per cui le scelte di politica fiscale non sembrano più appartenere alla discriminante destra/sinistra: da entrambi i lati appare dominante un unico slogan, diminuire le tasse. Così si perde di vista che il significato e il ruolo della tassazione non sono valutabili in se stessi, ma si commisurano anche e soprattutto al livello e alla qualità dei servizi di cui una società desidera disporre, i quali a loro volta, esprimono la qualità e la natura dei «beni collettivi» e dei «legami di cittadinanza» propri di quella stessa società.
Poiché, però, il dibattito sul livello e la struttura della tassazione è centrale per il processo democratico, l’accettazione della ridefinizione della questione fiscale nei termini angusti imposti dai conservatori è particolarmente dannosa per le forze di centro-sinistra. Esse, infatti, hanno bisogno per definizione di politiche attive e di offrire servizi di alta qualità e basano la loro forza sull’estensione della cittadinanza e sull’approfondimento dei legami coesivi tra cittadini e dei legami di fiducia tra cittadini e stato, l’indebolimento dei quali è, invece, provocato dalla delegittimazione della tassazione. Se ne vedono le conseguenze, in vari paesi europei, nello scatenamento di populismi che trovano impreparate le forze di sinistra e di centrosinistra.
Queste ultimi confermano la loro vitale necessità di essere e di essere percepite, agli occhi del loro elettorato, al tempo stesso più efficienti, più eque e più capaci di sollecitare il potenziale dinamico e coesivo di una società. In definitiva, Renzi non va criticato per aver conquistato «margini di flessibilità« e voler oggi rimettere in discussione il Fiscal Compact. Va criticato per aver dissipato quei margini di flessibilità (che concretamente vogliono dire finanziamento in deficit) finanziando non spesa in investimenti produttivi ma spesa corrente, fatta di tagli fiscali, decontribuzione, regalie varie. Al contrario, quello che oggi urge è un rovesciamento di lessico, di paradigma culturale, di etica pubblica che sposti il focus – dagli incentivi indiretti, i bonus, i trasferimenti monetari quali sono anche i benefici fiscali – a un grande Piano di investimenti pubblici per un nuovo modello di sviluppo di elevata qualità e ad alta intensità di lavoro, soprattutto per i giovani la cui disoccupazione rimane scandalosamente vicina al 40%.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento