La
lunga intervista di Carlo Bonini al capo della polizia Franco Gabrielli
apparsa sulle prime pagine del quotidiano “La Repubblica” il 19 luglio è
paradigmatica di un importante passaggio di fase che stiamo
attraversando.
Questa è fase di transizione dai ritmi e dagli esiti incerti che si caratterizza per due aspetti complementari.
Il primo è una più marcata tendenza alla guerra frutto dell’inasprirsi del
conflitto inter-imperialistico nella competizione globale tra
differenti poli al tempo di una crisi di cui non si intravede l’uscita
dal tunnel, e specificatamente per la UE questo significa un profilo di
intervento spiccatamente neo-coloniale come traspare tra l’altro per
l’Italia dalle recenti dichiarazioni à la guerre comme à la guerre della Mogherini e della Pinotti.
La
politica bellicista italiana che si prefigura, implica una maggiore
assunzione di responsabilità verso il baratro in cui le classi dirigenti
ci stanno trascinando da tempo, con possibili effetti boomerang, come è
avvenuto sempre più serialmente nelle cittadelle europee, e senz’altro
sulla pelle di quelle popolazioni che vivono quei territori soggetti ai
tentativi di destabilizzazione e/o di vera aggressione aventi
strutturalmente come output l’immigrazione verso la Fortezza Europa.
Il secondo è – sempre nel Vecchio Continente
– un affondo decisivo alle garanzie politico-sociali complessive delle
classi popolari per subordinarne a tutti i livelli gli interessi dei
ceti popolari ai progetti delle oligarchie ordo-liberali, abbassandone
tra l’altro drasticamente il costo del lavoro, considerando la
rappresentanza politico-sindacale uno scomodo retaggio da rimuovere di
un quadro obsoleto di relazioni industriali.
In
un paese alla periferia della UE come l’Italia, attraversata da una
pesante ristrutturazione dettata dalla nuova divisione internazionale
del lavoro secondo la regia UE, i costi di questa transizione di fase
sembrano piuttosto onerosi e il corpo sociale potenzialmente
insofferente nel vedere inasprita ulteriormente la propria già difficile
condizione.
In
questo contesto, in previsione di una finanziaria prossima ventura che
si preannuncia una epocale macelleria sociale, di una difesa a spada
tratta della rendita immobiliare-finanziaria da parte della classe
politica dirigente, della privatizzazione di una serie di settori ancora
parzialmente o totalmente pubblici (centrali nella gestione urbana) e
non ultimo la svendita di importanti comparti del sistema produttivo
nazionale, diviene prioritario l’impedire preventivamente il saldarsi di
un blocco sociale antagonista con un orientamento ostile nei confronti
della gerarchia di comando che va dai decision makers dell’Unione europea fino ai loro zelanti terminali politici nazionali e locali.
I
media mainsteam, ma non solo, stanno infatti svolgendo un lavoro in
profondità sul corpo sociale affinché gli effetti della “lotta di classe
dall’alto” vengano tradotti non in un conflitto verticale tra il basso e
l’alto, ma in una lotta dei penultimi contro gli ultimi.
Questi
apparati stanno introducendo una cultura della de-solidarizzazione di
massa che mina alle basi, in un contesto di spappolamento sociale, quel costruir pueplo che non si dà se non con e dentro un
processo politico organizzativo ed un indirizzo identitario in cui la
solidarietà tra sfruttati, nelle varie forme che può assumere, è un
perno imprescindibile.
La
costruzione ideologica del “problema immigrazione” (e non della sua
“cattiva” gestione) sta dentro questo tentativo di mutazione
antropologica radicale della percezione delle classi subalterne;
contrastare la creazione della peste emozionale contro il migrante
diviene dunque una priorità politica.
La borghesia attraverso la sua trama di potere, tra cui i suoi organi di informazione e i suoi rappresentanti istituzionali, in primis Gentiloni,
non fa altro che ripetere di essere sostanzialmente indifferente alle
convulsioni del quadro partitico dato e aliena alle discussioni del ceto
politico su possibili alleanze: chiede semplicemente stabilità, che tradotto vuol dire mantenere la barra ad ogni costo per applicare le formule decise tra Bruxelles e Strasburgo.
Questa
esigenza, in assenza di una rappresentanza politica elettorale dotata
di un sufficiente (anche se risicato) consenso per applicarne i piani e
di un evidente vuoto politico di rappresentanza per le classi
subalterne – interna a una trasformazione complessiva della forma-stato –
non può che produrre un salto di qualità nelle forme di controllo
preventivo e repressione del conflitto sociale in Italia.
Questo
si traduce in un accanimento nei confronti del corpo di attivisti
maturati dentro l’orizzonte di questa crisi sistemica, dei vari soggetti
organizzati che ne hanno fino ad ora incarnato la resistenza
politico-sociale, nel tentativo di annichilire la creazione di una nuova
generazione di “quadri” reali e potenziali formatisi nel magma sociale
del mondo fluttuante all’interno della frantumazione di ogni ipotesi
credibile di rappresentanza istituzionale.
La borghesia, in questo senso, agisce in prospettiva e ha ben chiaro il proprio nemico.
Infatti,
la battaglia culturale su cui le élites stanno investendo punta alla
legittimazione da un lato dell’ennesimo affondo al diritto di sciopero e
dall’altro alla creazione di consenso verso il mix di pratiche che
attingono dall’ingombrante bagaglio repressivo dello stato italiano
nelle sue vari fasi di sviluppo (pre e “post-democratiche”); e ne crea
di nuove come per esempio i decreti, ora leggi, Minniti-Orlando.
La Kulturkampf
condotta dagli apparati di potere politico-culturali tende a negare tra
l’altro qualsiasi riconoscimento alla pluricentenaria storia del
movimento operaio, in particolare alle sue espressioni non
social-democratiche o cristiano-sociali, ma alle esperienze delle
rivoluzioni comuniste ed anti-coloniali, nonché alle attuali esperienze
di riscatto politico sociale statuali “in contro-tendenza”: questo
sforzo punta ad impedire una presa di coscienza che si articoli in un
progetto di trasformazione nel solco delle conquiste epocali dell’umanità sofferente.
Alla luce di questo quadro le parole di Gabrielli appaiono sotto tutt’altra luce.
Non
le si devono interpretare come “coraggiosa autocritica” dell’operato
passato delle forze dell’ordine attraverso la voce del suo massimo
esponente, tesa soltanto a recuperare il consenso nel gap creatosi tra
una residuale coscienza democratica del “variegato popolo della
sinistra” e l’azione della polizia, ma come legittimazione di una
diversa governance;
non solo nella gestione di piazza, ma soprattutto a comprimere i
margini di azione politica delle classi subalterne, nonché a una difesa tout court del corpo di polizia.
E’ il tentativo di creare un frame concettuale e una dignità intellettuale, in forma volgarizzata, alla giustificazione dello stato di eccezione permanente, alla perenne logica dell’emergenza,
alla demolizione dello stato di diritto attraverso la sua
trasformazione di un ordine post-democratico, in cui la rappresentanza
dei singoli organi dello stato deriva non da una evaporata sovranità
popolare, ma dalle esigenze delle oligarchie al di là e al di sopra
della compagine governativa temporaneamente al timone, alla
trasfigurazione di un corpo repressivo il cui l’operato è sempre più
visibile a fette crescenti della classe.
Gabrielli, cerca di smarcarsi dall’immagine ideal-tipica del capo della polizia resa celebre da Gian Maria Volonté, in Un cittadino al di sopra di ogni sospetto, quello che conclude la sua visione del proprio ruolo con le parole: “il
popolo è minorenne, la città è malata, ad altri spetta il compito di
curare e di educare, a noi il dovere di reprimere. La repressione è il
nostro vaccino. Repressione è civiltà”. Ma il contenuto del suo dire non è meno preoccupante, anzi...
Riprendiamo l’ultima parte dell’intervista quando afferma che “non ci sarà una nuova Genova”.
Il giornalista gli domanda se sia una promessa e lui risponde:
“È
un fatto. Perché questi sedici anni non sono passati inutilmente. Prima
dicevo che la polizia del 2001 era una polizia democratica esattamente
come lo è quella di oggi. Ma sono cambiate molte cose nelle nostre
routine, nella formazione delle nostre donne e dei nostri uomini, nella
gestione dell’ordine pubblico. Guardiamo cosa è accaduto ad Amburgo. E
guardiamo cosa invece è accaduto a Roma, in occasione dei 60 anni della
firma dei trattati di Roma, e a Taormina con il G7. Il nostro sistema di
prevenzione e sicurezza è oggi quello che conosciamo anche perché c’è
stata Genova. E da lì è cominciata la nostra traversata nel deserto.
Oggi, il nostro baricentro è spostato sulla prevenzione prima che sulla
repressione. Sul prima, piuttosto che sul poi. Lavoriamo perché le cose
non accadano. O quantomeno per ridurre la possibilità che accadano. Non
per mettere una toppa quando il danno è fatto. Ecco perché dico che
dobbiamo liberarci dalla maledizione di camminare in avanti con lo
sguardo rivolto all’indietro. Consegniamo quel G8 di Genova alla Storia.
Perché questo ci renderà tutti più liberi. E quando dico tutti, penso
al Paese e alla Polizia che di questo Paese è figlia”.
Bene, in quelle parole centrali: lavoriamo perché le cose non accadano. O quanto meno per ridurre la possibilità che accadano sta
il senso dell’intervista. Il conflitto sociale non deve esprimersi ed i
recenti avvenimenti sembrano corroborare questa tesi, in cui non si
rinuncia all’azione repressiva tout court (le cariche a Torino,
Bologna e Padova) e all’uso dei fascisti, anche come vettori della
mobilitazione reazionaria di massa oltre che in funzione squadristica,
si inaspriscono le misure restrittive comminate come pena senza processo
(fogli di via, sanzioni pecuniarie, ecc.), si crea un clima
giustizialista e xenofobo teso a legittimare l’inasprimento delle
condizioni detentive del circuito penitenziario e delle detenzioni
amministrative nei lager per migranti, si negano forme di aggregazione
che non siano all’interno e dentro il circuito commerciale del consumo
del tempo libero, si elimina il concetto di scuola ed università come
luogo di incontro, scambio e occasione di coltivare forme relazionali
sganciate dagli input di performance imposti dall’istituzione scolastica
e dai suoi ormai organici circuiti commerciali, ecc.
Appare
quindi centrale lavorare su questo terreno con uno spirito unitario che
travalichi i confini con cui si è affrontato il tema, comunque centrale,
del controllo sociale e della repressione e con un approccio teso a
investire un ampio spettro di forze politiche, ma soprattutto di
soggetti sociali coinvolti. Un lavoro che raccordi le spinte spontanee
che si sono espresse in questi mesi in opposizione alle leggi
Minniti-Orlando ed il prezioso lavoro svolto dai compagni su questo tema
da anni, in grado di dare vita ad una campagna nazionale che comprenda il rilancio della
proposta di amnistia politico-sociale che rivendichi la legittimità,
rifiutando la criminalizzazione, delle varie forme che la lotta di
classe ha assunto e assume in questo Paese, contro la consegna di una
generazione di attivisti politico-sociali alle strette maglie della
repressione e ai ristretti orizzonti del carcere.
Una
delle quattro campagne indicate dalla piattaforma politico-sociale
Eurostop va in questa direzione ed ha intenzione di aprire un ampio
confronto perché centrale nella propria agenda politica.
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