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25/07/2017

L’acqua che manca, perché è “privata”


Il tormentone dell’estate vive su una coppia di note: gli incendi e la siccità. Non fa una piega, vista la relazione strettissima tra la scarsità delle seconda e il dilagare dei primi. Ma la relazione più stretta è con un altro fenomeno, che pure passa come assolutamente positivo, chiamato privatizzazioni.

Ci siamo occupati del peso negativo delle privatizzazioni sulla diffusione degli incendi (http://contropiano.org/news/politica-news/2017/07/18/incendi-ovunque-lombra-del-business-dello-spegnimento-privatizzato-094048), aggravato dalla scelta renziana di abolire il Corpo Forestale, assorbito dai Carabinieri, senza però affidarne le funzioni preventive ad altri organismi (i Vigili del fuoco, notoriamente, intervengono in condizioni di emergenza, post factum).

La siccità e il rifornimento idrico, invece, a prima vista non presentano un rapporto stringente con la privatizzazione. In fondo, “se non piove, c’è meno acqua”, no?

Vero. Ma come viene trattenuta, conservata, distribuita l’acqua che cade dal cielo durante l’anno? E anche quella delle sorgenti naturali, la cui disponibilità dipende comunque (su tempi molto più lunghi) dalle precipitazioni?

Nonostante un referendum vinto contro la privatizzazione dell’acqua, bene pubblico essenziale per definizione, gran parte del patrimonio idrico del paese è gestito da società private o con “spirito privatistico” (obiettivo: fare profitto). Anche se la proprietà dell’acqua è pubblica, dunque, la sua gestione è di fatto privata.

Facciamo l’esempio di Roma, in questo momento al cento di servizi, approfondimenti, notiziari, reportage, ecc. La società che gestisce il rifornimento è l’Acea, che oltre la Capitale distribuisce acqua in diverse regioni italiane, coprendo un bacino di 8 milioni di utenti. Si tratta di una “partecipata” pubblica, con il 51% delle azioni in mano al Comune di Roma, il 23,33% in mano a Suez Sa (gruppo franco-belga che opera come una multinazionale), il 5% è dell’onnipresente Gaetano Caltagirone, e a seguire azionisti “diffusi”, visto che Acea è quotata in borsa. Questa condizione le impone di perseguire il massimo profitto possibile con l’unica finalità tipica di ogni società per azioni: distribuire il massimo dei dividendi possibili agli azionisti.

Acea è anche una società multiservizi. Oltre che di acqua, insomma, si occupa di energia, reti, ambiente. E’ nella sua tradizione storica, del resto, visto che il nome originario era Azienda Comunale Elettricità e Acque poi tramutato in Azienda Comunale Energia e Ambiente.

E’ una società sempre in attivo, non conosce crisi e distribuisce utili. Non vive insomma di contributi pubblici, anche se è stata messa in funzione con finanziamenti pubblici. Ciò nonostante, il governo e l’Unione Europea spingono per la completa privatizzazione; segno che l’“efficienza” è una scusa per riempire i notiziari, non un fine reale.

Tutto bene, dunque? No, perché l’acqua che arriva a Roma rappresenta poco più del 50% del quantitativo partito dalle sorgenti o dagli invasi. Oltre il 44%, infatti, si perde all’interno della rete di distribuzione, quasi un record nazionale (fanno peggio solo alcune città del Mezzogiorno). Logica e ideologia imprenditoriale vorrebbero che l’Acea provvedesse a sostituire le tubature semidistrutte dal tempo e dall’usura, ma si guarda bene dal farlo. Interviene – e non sempre – solo là dove si crea un’emergenza, esplode un condotto o viene tranciato nel corso di lavori stradali.

Perché?

Per salvaguardare profitti e dividendi, vien da pensare. In fondo la materia prima è pubblica (l’acqua in questo caso), non deve essere prodotta e sgorga naturalmente dalla sorgenti. L’unico invaso da cui viene prelevata acqua per Roma è – ormai lo sanno tutti – il lago di Bracciano, che comunque fornisce una percentuale risibile del totale distribuito nella Capitale. In genere fino a 1.800 litri al minuto. Mentre dall’acquedotto del Peschiera (Cittaducale, in provincia di Rieti) arriva l’85% del totale. Le altre vie di rifornimento sono l’Appio-Alessandrino (che disseta i quartieri a Sud-Sud Est e Ostia) e l’Acqua Marcia.

Una riduzione delle perdite, insomma, permetterebbe di evitare o ridurre al minimo “stati di crisi” come quello di questi giorni, che ha certamente a monte una stagione eccezionalmente siccitosa.

E invece cosa accade?

La Regione Lazio (a guida Pd) dispone la chiusura dell’acquedotto dal lago di Bracciano. Che lo faccia per ragioni ambientali (il livello è effettivamente sceso ai livelli di guardia) o politiche (mettere in difficoltà la giunta comunale grillina e parecchio incompetente), o collegando furbescamente entrambe le cose, è in fondo secondario. Non è infatti da Bracciano che dipende il rifornimento di Roma.

La giunta Raggi prima decide di chiudere 30 “nasoni” al giorno, a turno. Una presa per i fondelli, visto che le classiche fontanelle romane – da cui esce acqua 24 ore su 24 – sono 2.500. Se ci aggiungiamo poi le grandi fontane storiche (da quella di Trevi in giù), si vede in un attimo che era stata una decisione solo pubblicitaria, ma di nessun effetto concreto. Si sarebbe risparmiata più acqua dotando i “nasoni” di un rubinetto...

Poi – dopo la decisione di Zingaretti su Bracciano – ha disposto un razionamento assolutamente drastico: 8 ore al giorno di sospensione della fornitura negli appartamenti, a partire da venerdì 28 luglio. Neanche fossimo nel Sahara o in piena catastrofe; in fondo l’85% viene dal Peschiera che, pur cominciando a soffrire, garantisce ancora ampiamente la sua parte... Anche qui, il sospetto che il Comune grillino abbia voluto, altrettanto furbescamente, “rispondere” alla provocazione della Regione piddina è forte. Ma neanche questo appare importante, né risolutivo. Solo un po’ stupido...

Il problema vero è che nessuno – né la regione, né il Comune di Roma – pretende dall’Acea di fare quel che qualsiasi fornitore di un bene pubblico dovrebbe fare senza che neanche gli venga chiesto: ristrutturare la rete idrica, ridurre velocemente le perdite, trovare soluzioni-tampone per superare le difficoltà (non ancora “emergenza”). Usando l’attivo di bilancio, certificato e consistente.

Ma guai a disturbare il distributore di dividendi! Meglio usare la crisi per puntare alla privatizzazione (Pd e radicali, con l’appoggio delle destre) e, en passant, raccogliere qualche risultato polemico-politico.

Intanto, il profitvero obiettivo dei gestori “privatistici” dell’acqua è stato esplicitato dal presidente dell’associazione che li riunisce. Ha spiegato al Tg3 – non contraddetto – che le vie per migliorare le strutture di rifornimento idrico sono tre: investimenti pubblici (per ammodernare le reti), finanziamenti pubblici (direttamente alle società di gestione) e aumento delle tariffe. Meglio se tutti e tre insieme, così le società possono fare profitti migliori e – forse, un giorno, ma non c’è certezza – concedere un rifornimento più stabile.

Ci vogliono svuotare il portafoglio prendendoci per sete. Più che un business, è una rapina...

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