Due contributi diversi, ma sicuramente rispettosi dell’oggetto. Ben diversamente da quanto accade – purtroppo spesso – nel dibattito teorico “di sinistra”.
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Alfonso M. Iacono
IL TIRRENO
11 settembre 2017
L’11 settembre del 1867, 150 anni fa, veniva pubblicata un libro destinato a diventare una delle opere più influenti, tradotte e discusse di tutti i tempi. Quest’opera è Il capitale di Karl Marx o più esattamente il libro primo, l’unico che Marx riuscì a pubblicare in vita. Fu un’opera che egli portò avanti disperatamente in mezzo a difficili condizioni fisiche ed economiche.
Circa trent’anni fa, o anche più, esisteva una rivista che si chiamava ‘Pace e guerra’ ed era diretta da Luciana Castellina, Stefano Rodotà e Claudio Napoleoni. Quest’ultimo, insigne economista, durante una pausa del lavoro redazionale ci raccontò che un giorno un suo studente (Claudio era professore all’università di Torino) gli disse che aveva trovato Il Capitale “carino”. Al che Napoleoni andò su tutte le furie, perché un libro come quello di Marx poteva suscitare avversione o ammirazione, rifiuto o interesse, ma non poteva essere giudicato “carino”.
Sì, perché il capolavoro di Marx è ancora un libro sconvolgente. Per un po’, tra gli anni '80 e i primi del terzo millennio fu quasi dimenticato, ma poi arrivò la grande crisi economica mondiale del 2008-2009 e ovunque economisti, filosofi, storici andarono nelle biblioteche a cercare il libro di Marx per rileggerlo e vedere di capire qualcosa di una crisi capitalistica che era imprevedibilmente arrivata come uno tsunami e da cui ancora non siamo usciti.
Sì, perché, nonostante l’enfasi sulla globalizzazione e il dominio dell’ideologia neoliberista, che si è affermata in un’epoca falsamente presentata come quella della fine delle ideologie, l’analisi compiuta da Marx sul capitalismo, sulle sue contraddizioni e sui suoi processi resta ancora fondamentale per comprendere qualcosa su quel che ci è accaduto e ci sta ancora accadendo.
La ricchezza della società nel modo di produzione capitalistico si presenta come “un’immane raccolta di merci”. Comincia così Il Capitale, (che ribadisce un’osservazione già fatta otto anni prima). Se oggi Marx fosse vivo, rimarrebbe forse stupefatto di quanto si sia ingigantito quell’aggettivo “immane”. Ma la crescita a dismisura delle merci, nonostante molte, moltissime cose siano accadute nei ultimi 150 anni, non cambia la sostanza dell’analisi che Marx ha fatto sulla natura della merce, sul suo essere non una cosa, che magari brilla e affascina per la sua avvenenza, ma il risultato di complesse relazioni sociali, basate sul dominio e sullo sfruttamento, dell’uomo sull’uomo.
A rigor di termini una merce è una merce. Dal punto di vista capitalistico lo scopo è produrre profitto. Di conseguenza, dal punto di vista dell’economia capitalistica, in teoria, non c’è differenza tra la vendita della Bibbia o del Corano e la vendita di armi o di droga o di esseri umani. Tutto dipende dal profitto che se ne può trarre. Là dove è maggiore, il capitale va.
Si dirà: ci sono dei vincoli morali e legali. Certamente, ma come mai sembra quasi ovvio mettere nel conto del famoso PIL, il prodotto nazionale lordo, l’economia della droga e della prostituzione? Quella delle armi, a chiunque si vendano, è perfettamente legale. Perfino la tratta dei migranti o gli incendi estivi sono affari che producono profitto.
Marx non era un moralista. Essere moralisti non serve se non a mettere a posto la propria coscienza o a essere dannosamente intransigenti. Egli si pose il problema di come funzionasse un sistema che in nome della libertà si basa contraddittoriamente, ma fondamentalmente, sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e lo ha analizzato criticamente. Cercò di disvelare quell’imbroglio sottile e diffuso secondo cui i processi economici sarebbero naturali ed eterni e quindi immutabili, mentre invece sono storici e come tali modificabili dagli uomini.
La sua idea era che potessero e dovessero essere gli sfruttati a mutare quello stato di cose, ritrovando dignità, orgoglio e autonomia. Che strana idea!
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IL CAPITALE: UN CONTRIBUTO
di Franco Astengo
Si sta scrivendo molto sui 150 anni di ricorrenza dalla pubblicazione del primo volume del “Capitale” e pare emergano nell’espressione del ricordo due tendenze: quella che punta a considerare l’attualità dell’opera come fatto“in sé” considerata quale punto di sistematizzazione scientifica del suo sotto titolo “Critica dell’economia politica” e quella che ne lega le sorti – dal punto di vista dell’attualità – agli inveramenti e fraintendimenti politici, partitici, statuali verificatisi diciamo così “in suo nome”.
E’ difficile disgiungere le argomentazioni, da questo punto di vista, e isolare in un qualche modo i diversi contesti: è evidente che l’epopea e la tragedia che il “marxismo” ha evocato sul piano della storia non possono essere ignorate, nel momento in cui se ne intende ricordare l’opera fondamentale di quella che può ben essere considerata una “scuola”.
Così come può apparire banale insistere nel richiamare l’intatta attualità delle contraddizioni che vi sono oggettivamente evocate sul piano dello sfruttamento e dell’affermazione delle disuguaglianze puntando a considerare i fatti della storia come sviluppo oggettivo di una sovrastruttura che per l’appunto si è oggettivamente evoluta nelle forme storicamente date nel presentarsi dei diversi contesti.
In quest’occasione proverò semplicemente a fornire un contributo al riguardo della genesi dell’opera proprio per cercare di recuperare nella memoria la complessità di intendimenti su cui Marx (ed Engels) ha lavorato fino ad arrivare alla pubblicazione del primo volume.
Date e notizie in questo caso sono state assunte dal Primo Volume della monumentale “Storia del Socialismo” pubblicata dagli Editori Riuniti nel 1973 a cura di Jacques Droz (con la collaborazione di Francois Bedarida, Jean Bruhat, Jean Chesneaux, Annie Kriegel, Claude Mossé, Albert Soboul): in quel testo prima di tutto, tra l’altro, l’uscita del volume è collocata al 14 settembre 1867 in quel di Amburgo.
Una prima indicazione mi pare essenziale.
E’ proprio nel primo volume del “Capitale” (l’unico uscito con Marx ancora in vita) che sono contenute le analisi fondamentali del capitalismo: la produzione del plusvalore, la produzione del capitale e l’accumulazione del capitale.
Affermato ciò come elemento distintivo di una possibile ricerca sull’attualità (ricerca che pare stare a cuore a molti che forse tendono a ignorare il senso complessivo consegnato ai posteri dall’opera marxiana) si tratta di entrare nel merito proprio dei passaggi sulla base dei quali le tesi contenute nel Capitale sono state elaborate.
Marx, com’è noto, iniziò molto presto a mostrare interesse per l’economia politica.
Già sulla Rheinische Zeitung Marx comincia ad affrontare questi temi ma – si badi bene – per motivi soprattutto politici.
L’obiettivo dei suoi articoli era, in quel frangente, di difendere i vignaioli della Mosella e i contadini poveri ai quali veniva rifiutato il diritto di far legna nelle foreste da cui da tempo immemorabile le norme consuetudinarie avevano attribuito loro l’uso.
Scrive Engels: “Ho sempre sentito dire a Marx che proprio occupandosi della legislazione sui furti di legname e della situazione dei contadini della Mosella il suo interesse si è spostato dalla politica pura alle relazioni economiche ed è pervenuto al socialismo”.
Nel febbraio del 1844, in un articolo apparso sugli “Annali franco – tedeschi” sotto il titolo “Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione” Marx scrive tra l’altro:
“ Il rapporto dell’industria, del mondo della ricchezza in genere con il mondo politico è il problema capitale dei tempi moderni” (frase di strepitosa attualità, almeno a giudizio di chi ha redatto questa nota).
Su questa via Marx è stato, com’è noto, preceduto da Engels il quale, durante il suo soggiorno a Manchester, ha lavorato in una fabbrica e ha potuto costatare (lo ammetterà lui stesso quarant’anni dopo) che i fatti economici, che non svolgevano fino a quel punto alcun ruolo nella storiografia o vi svolgevano un ruolo misconosciuto, sono nel mondo moderno una potenza storica decisiva.
La considerazione che si può svolgere, a questo punto, dai posteri sembra proprio essere quella della decisività dell’esperienza diretta nel passaggio di Marx ed Engels al socialismo inteso come fatto politico.
Ancora: nell’itinerario che condurrà Marx al Capitale si possono distinguere tra il 1844 e il 1848 quelle che sono state definite tre pietre miliari: la “Miseria della filosofia” (1847), il testo della conferenza tenuta a Bruxelles nel gennaio del 1848 su “Lavoro salariato e capitale” e infine “Il Manifesto del Partito Comunista” (Londra 21 febbraio 1848).
Nel prosieguo di questo itinerario va segnalata una svolta importante che si verifica nel 1850: Marx non crede più nell’imminenza di un moto rivoluzionario e decide di riprendere gli studi economici in modo più sistematico.
La scelta di Londra per l’esilio forzato si rivela, da questo punto di vista, del tutto funzionale sia per la possibilità di utilizzare il materiale documentario del British Museum e alla possibilità, tramite Engels, di usufruire di informazioni di prima mano sulla vita di fabbrica.
Soprattutto deve essere considerato il fatto che l’Inghilterra è in quel momento la potenza industriale più avanzata del mondo e le caratteristiche del sistema capitalistico vi si manifestano più nettamente che in altri paesi.
Nella stessa preparazione del Capitale si possono distinguere due fasi: quella del manoscritto (pubblicato soltanto nel 1939) “Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica” e quella del testo pubblicato il 1° giugno 1858 dal titolo “Per la critica dell’economia politica”.
E’ in questo caso, se lo esaminiamo dal punto di vista della storia del socialismo, che vengono proposti più nettamente che negli scritti precedenti alcuni grandi temi che la caratterizzeranno.
L’economia politica ha per oggetto non le cose, ma i rapporti tra gli uomini e, in ultima istanza, i rapporti tra le classi.
Nasce da questa considerazione di fondo una critica fondamentale delle concezioni utopistiche e volontaristiche.
I rapporti che si stabiliscono tra gli uomini “nella produzione sociale della loro esistenza” sono infatti “indipendenti dalla loro volontà”.
Sono rapporti “determinati necessari”, “rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle forze produttive materiali”.
Quindi per trasformare la società è necessario cambiare il modo di produzione della vita materiale che condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita”.
E’ a questo punto che, almeno a nostro avviso, la politica assume il suo primato e compare ancor più chiaro la scaturigine “politica” dell’insieme della critica all’economia.
D’altro canto lo stesso Marx spiega abbondantemente il suo concetto di rivoluzione sociale rendendolo inseparabile dalla storia del socialismo.
Si può studiare il Capitale (e ricordarlo in occasioni come questa) da diversi punti di vista.
L’economista (abbiamo notato sotto quest’aspetto un rifiorire di studi), lo storico, il politico o il filosofo possono trovarvi un proprio terreno di confronto, di analisi, di studio.
Ma non può esserne dimenticato il dato vero di costante attualità come lo stesso Marx indica nel testo già citato del 1° giugno 1858 “Per la critica dell’economia politica”.
“Ad un dato punto del loro sviluppo le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà dentro dei quali esse forze per l’innanzi si erano mosse. Questi rapporti da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale”.
Toccherebbe quindi alla politica, alle sue forme organizzate storicamente, individuare i passaggi nella costruzione delle catene e i modi per spezzarle.
I fallimenti del ‘900 non tolgono nulla all’attualità di questo passaggio: le catene ci sono e continuamente si costruiscono ed è necessario continuare a lavorare per spezzarle.
Fonte
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