di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Almeno 60 morti, forse 70,
oltre 100 feriti: è il bilancio dell’ultimo bombardamento saudita sulla
città costiera yemenita di Hodeidah, giovedì. Visti i target, ancora più
odioso: l’ospedale al-Thawra (rivoluzione, in arabo), il
porticciolo dei pescatori, un mercato del pesce. Le ambulanze hanno
fatto la spola per ore, per trasportare i feriti ed evacuare i pazienti dell’ospedale.
«Abbiamo assistito a un crimine brutale»: alza la voce Taha
al-Mutawakil, ministro dalla Salute dell’amministrazione dei ribelli
Houthi, che controllano Hodeidah dal 2014, mentre racconta delle
difficoltà nel trasferire i feriti in altre province, le stesse
difficoltà riportate dalla Croce Rossa che opera lì.
A nulla è servito finora lo sforzo diplomatico dell’Onu che dal
lancio delle operazioni aeree saudite ed emiratine sulla città stanno
tentando la via del negoziato: proprio giovedì l’inviato speciale
Griffiths faceva sapere di aver invitato le parti a Ginevra il 6
settembre.
Ma la battaglia prosegue, Hodeidah è fondamentale: principale
porto del paese, da cui entrava il 70% delle importazioni prima e il
70% degli aiuti umanitari oggi, si affaccia sul Mar Rosso e sulle acque
che vedono il passaggio di buona parte delle petroliere che dal Golfo
vanno a rifornire di energia l’Europa. La battaglia ha devastato la città, i suoi 400mila abitanti e la loro economia, la pesca.
«Il porto e il mercato erano pieni gente – si dispera Mohamed
al-Hasni, il capo del sindacato dei pescatori di Hodeidah – È stato un
massacro. Non ci sono siti militari qui. Non ci sono uomini
armati. Colpire [i pescatori] serve a diffondere terrore e paura». Una
paura alimentata dalla strategia della coalizione a guida saudita: dopo
aver colpito porticciolo e mercato, mentre i feriti venivano portati
d’urgenza all’ospedale, a pochi metri di distanza, al-Thawra veniva
colpito.
La coalizione a guida saudita, per bocca del portavoce al-Malki, nega
ogni responsabilità sebbene sia la sola aviazione che opera nei cieli
yemeniti. Non è la prima volta che i pescatori finiscono nel mirino. Le
piccole imbarcazioni blu e bianche, che da secoli solcano i mari di
fronte ad Hodeidah, non sono state risparmiate dal conflitto.
Da qui, dal porto, lo Yemen si è aperto al mondo: da due
secoli da Hodeidah partono caffè (il più buono del mondo arabo, si
dice), cotone, datteri, sandali, le famose stoffe locali lavorate a
mano.
Costruito sotto l’impero ottomano a metà del XIX secolo, fu ampliato
nei primi due decenni del secolo successivo dai colonizzatori britannici
con infrastrutture, strade e una ferrovia che collegava Hodeidah alla
capitale Sana’a, a nord. Arrivavano navi da Gran Bretagna, Italia, Russia, Germania, India.
Oggi lo scalo non esiste più. O meglio, c’è ancora, seppur danneggiato. Quello che non esiste quasi più sono le navi in arrivo:
dal 2015, dall’inizio dell’operazione saudita contro lo Yemen, Riyadh
ha imposto il blocco navale. Sono i sauditi a decidere cosa entra e
quando. Difficile anche uscire: i pescatori sono prede dei raid sauditi
perché accusati di trafficare armi per i ribelli Houthi. Dal 2015 oltre 250 barche sono stati distrutte, 152 pescatori uccisi e quasi 500 arrestati, secondo i dati del sindacato.
Riyadh ha distrutto un’intera economia: in pochissimi si avventurano
per mare per tornare spesso con le reti vuote. Al posto dei pescatori
yemeniti ci sono i grandi pescherecci egiziani ed emiratini che
saccheggiano il Mar Rosso e portano il pescato lontano. Secondo un
rapporto di marzo del ministero yemenita della Pesca, la perdita totale
dal 2015 a oggi ammonta a 4,5 miliardi di dollari: 37mila i pescatori hanno perso il lavoro, quasi 5mila barche sono ferme come 50 industrie di lavorazione del pesce.
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