Sviluppo e declino dell’economia sovietica, a cura della redazione di Countdown. Studi sulla crisi, Asterios 2018, pp. 365, € 29,75.
Di fronte alla rapida dissoluzione dell’URSS, con il classico senno di poi, il senso comune liberale ha decretato che la crisi era inevitabile e iscritta sin dall’inizio nelle fondamenta di un sistema sostanzialmente contronatura. Questione chiusa. E con ciò si è preteso di chiudere anche ogni prospettiva di modifica radicale degli assetti politico-economici dominanti. Che ci piaccia o no il crollo dell’Unione Sovietica ha dato un contributo essenziale a consolidare la convinzione che “non c’è alternativa” al sistema capitalistico. Non è un caso che di fronte alla crisi iniziata nel 2008, la più grave dopo quella del ‘29, siano state proposte solo pallide repliche di un riformismo keynesiano. Per tornare a parlare in modo credibile di una ipotesi di trasformazione reale sarebbe stata necessaria un’elaborazione collettiva della vicenda storica dell’Unione Sovietica. La questione, invece, è stata sostanzialmente rimossa. Ci sono però delle lodevoli eccezioni tra cui la redazione di Countdown che ha curato la raccolta di saggi dal titolo Sviluppo e declino dell’economia sovietica.
I curatori del volume hanno un consolidato gusto per la provocazione nei confronti delle più radicate convinzioni della sinistra. Cosa che traspare dal giudizio che viene dato dei soviet nell’articolo di Paolo Giussani: “Strumenti di lotta e sistemi di riferimento per la massa dei lavoratori, erano del tutto estranei al funzionamento dell’economia” e dunque non potevano essere altro che organismi adatti a un “rivoluzionamento politico”.1
La presa del potere da parte di un governo rivoluzionario è però soltanto la premessa per la gestione associata dei produttori dell’apparato produttivo e distributivo. Per raggiungere questo scopo occorrono forme politiche adeguate che dovrebbero essere elaborate, almeno in parte, nel corso della presa del potere politico. Nulla di tutto ciò è successo. Lo Stato, infatti, non ha creato una nuova forma economica ma ha cercato di sottomettere a sé l’economia mercantile esistente. Le singole unità produttive sono assoggettate al potere assoluto di gestione del direttore unico e le transazioni mercantili alle disposizioni degli organi di pianificazione. Ma la pianificazione è stata in gran parte una fictio juris. Il lavoro è rimasto una merce venduta in cambio di salario, il denaro ha mantenuto le sue funzioni, circostanze che provano che il coordinamento statale ha continuato in certa misura a sovrapporsi dall’esterno ai rapporti tra aziende.
Tutto ciò che resta del controllo operaio viene tolto di mezzo con l’affermazione dell’economia pianificata. Ma i rapporti di antagonismo tra classe operaia e classe dirigente sovietica – élite del partito, dirigenti industriali e delle cellule di fabbrica, tecnici specialisti – si sviluppano in modo deciso già dal 1922-23, come documenta Simon Pirani.2
Il 1924, con la vittoria di Stalin sull’opposizione, rappresenta uno spartiacque. L’élite ha concentrato nelle sue mani il potere politico e le leve amministrative, i suoi privilegi materiali sono stati legittimati dal partito. Viene definito il ruolo dei manager comunisti che di fronte all’opposizione degli operai possono raggiungere un livello di compromesso su paga e condizioni di lavoro, ma devono difendere il monopolio del Partito-Stato sulle decisioni politiche soffocando tutte le aspirazioni ad una più ampia democrazia operaia e all’autogestione. I dirigenti, dunque, si trovano molto presto di fronte, nelle fabbriche, una classe operaia che li considera rappresentanti di una classe ostile.
Una volta consolidato il suo potere politico, la nuova classe dirigente cerca di assumere le redini dello sviluppo economico attraverso la pianificazione. Ma ci riesce davvero? Una valutazione articolata sull’argomento viene offerta da Jaques Sapir3 secondo il quale il sistema sovietico si è caratterizzato per la presenza di diverse modalità di coordinamento dell’economia che nel tempo hanno assunto peso differente: il comando amministrativo, il mercato e i rapporti bilaterali. L’incoerenza del sistema porta ad un’economia della penuria: decentramento, despecializzazione dei complessi industriali (che tendono ad internalizzare la produzione degli input), piani specifici di settore, reclutamento e remunerazione della forza lavoro lasciato alle imprese, baratto tra unità produttive sono tutti elementi che aumentano le difficoltà di coordinamento. La concorrenza si sposta a monte e riguarda la capacità di ottenere risorse materiali e finanziarie nonché manodopera. Le catene di approvvigionamento sono incerte e creano la tendenza ad accumulare risorse oltre le necessità, cosa che aumenta l’incertezza generale dell’approvvigionamento e la penuria. La contrattazione tra le singole unità produttive da una parte rappresenta un elemento di flessibilità di un sistema altrimenti eccessivamente rigido, dall’altro porta a mettere in discussione tutte le decisioni prese dai pianificatori.
Ciò nonostante, sostiene Paresh Chattopadhyay,4 l’URSS negli anni Trenta e Quaranta realizza un’accumulazione straordinariamente veloce e dei cambiamenti di struttura economica non paragonabili a quelli che si sono verificati in economie di mercato in tempi di pace. Si tratta però di una riproduzione su base allargata di tipo meramente quantitativo, frutto di un mero aumento di capitale senza modificazione delle condizioni di produzione. In mancanza delle continue rivoluzioni produttive, tipiche dell’economia capitalistica, è arrivata a quella che Marx definisce una sovrapproduzione assoluta di capitale. Tale situazione non è caratterizzata da una sovrapproduzione di merci, ma, al contrario, da una diffusa penuria. La crescita della popolazione lavoratrice è di gran lunga superiore alla crescita assoluta della popolazione e ciò porta ad una scarsità di manodopera così come ad una scarsità di materie prime.
Questa dinamica può essere messa in moto solo con l’abbandono della Nuova Politica Economica (NEP) che aveva però conseguito indubitabili successi. Questa opzione non fu il mero frutto dell’autoritarismo dei bolscevichi, ma la scelta disperata di chi aveva di fronte l’alternativa fra una lenta agonia e il tentativo di districarsi dall’arretratezza nonostante i sacrifici che questo avrebbe comportato per la popolazione. Ricorda infatti G.I Khanin5 che nel 1928, ultimo anno della NEP, il reddito nazionale e il reddito procapite, la redditività dell’industria e dunque il tenore di vita delle masse lavoratrici erano sensibilmente inferiori a quelli del 1913. La guerra mondiale prima e la guerra civile poi avevano fatto perdere 10-15 anni di ammodernamento degli impianti. Le perdite materiali e umane erano state enormi, l’emigrazione di personale qualificato assai significativa. A tutto ciò si aggiungeva una capacità militare fortemente ridotta in termini sia di numero di soldati sia di moderno equipaggiamento bellico.
L’economia di comando risulta perciò funzionale alla creazione di un potere economico militare, sostiene Mark Harrison.6 Sulla base del Composit Index of National Capability l’URSS, nei 20 anni che precedono la seconda guerra mondiale, ottenne il maggior aumento di potenza relativa dopo quello della Germania. Nel 1940, infatti, pur rimanendo la terza potenza militare mondiale dopo USA e Germania (stessa posizione del 1913), aveva diminuito lo svantaggio rispetto agli USA e aumentato il suo vantaggio nei confronti dell’Inghilterra (la quarta potenza).
I nodi vengono però al pettine nella metà degli anni Settanta del secolo scorso quando il sistema economico entra in una fase di stagnazione, come testimoniano il rallentamento della produzione e della produttività. Jaques Sapir7 (in un secondo articolo) documenta come, dalla fine della seconda guerra mondiale fino a metà degli anni Settanta, queste grandezze avevano mantenuto un andamento non molto dissimile da quello dei paesi occidentali, nonostante un’instabilità maggiore del tasso di crescita che sorprende in un sistema che si voleva pianificato e dunque meno soggetto alle fluttuazioni tipiche di un’economia di mercato. Alla fine però il sistema è stato sconfitto dalla sua incapacità di adattamento alla nuova situazione che esso stesso aveva creato e in particolare dall’incoerenza sempre più pronunciata tra le diverse modalità di coordinamento cui abbiamo già accennato.
Nel complesso il significato del volume curato da Countdown sembra essere un invito ad abbandonare la nostalgia per una struttura socio-economica che non è stata in grado di costituirsi come un sistema superiore a quello capitalistico, riproducendone, e in alcuni casi aggravandone il carattere oppressivo e i malfunzionamenti. Un invito condivisibile anche se l’immagine dell’URSS che esce fuori dal volume rischia di risultare un po’ troppo unilaterale. Questa impressione nasce probabilmente dal fatto che gli argomenti trattati si limitano, per lo più, al lato più strettamente economico. Per raggiungere un giudizio complessivo su quella esperienza storica occorrerebbe inserirli in un contesto più ampio. Per esempio tenendo in considerazione la situazione internazionale che, da un lato, ha condizionato l’URSS e, dall’altra, nel bene e nel male, ne è stata condizionata. Senza dimenticare il significato assunto nell’immaginario collettivo dalla presenza del primo Paese che si professava socialista.
La rimozione di questi nodi problematici, paradossalmente, ha favorito chi, in modo più o meno implicito, vagheggia la riproposizione della ricetta sovietica, magari aggiungendoci qualche ingrediente cinese. La mamma degli orfani del Paese guida è sempre incinta! D’altra parte, pensare di levarsi d’impaccio professando la propria estraneità a quella vicenda storica in nome di un modello normativo astratto che, estrapolato dai sacri testi, non si è mai realizzato in alcun luogo e tempo significa consegnarsi all’irrilevanza politica. Non può esserci altra via che quella di una histoire raisonnée che sappia tener conto sia dei condizionamenti oggettivi, quelli peculiari del contesto dell’epoca e quelli che si potrebbero ripresentare anche se in condizioni mutate, sia delle scelte soggettive di protagonisti, quelle derivanti a priori dalla loro specifica ideologia e quelle che furono prese reagendo alle circostanze impreviste. Solo incrociando questo tipo di valutazioni con un’analisi concreta della situazione attuale si possono ottenere indicazioni credibili su errori da non ripetere e strade interrotte da riprendere. Solo per questa via è possibile rivendicare le aspirazioni di milioni di uomini e donne che hanno partecipato direttamente a quelle vicende storiche e di coloro che in quell’esperienza hanno visto una premessa di emancipazione, senza essere screditati dall’innegabile oppressione e dall’evidente fallimento che il sistema sovietico ha portato con sé.
- Paolo Giussani, “La Rivoluzione d’Ottobre”, p. 61, in Sviluppo e declino dell’economia sovietica, a cura della redazione di Countdown. Studi sulla crisi, Asterios 2018.
- Cfr. Simon Pirani, “L’élite di partito, i dirigenti delle industrie e le cellule: i primi stadi della formazione della classe dirigente sovietica a Mosca 1922-23”, in op. cit. pp. 275-324.
- Cfr. Jaques Sapir, “L’economia sovietica: origine, sviluppo e funzionamento”, in op. cit, pp. 63-124.
- Cfr. Paresh Chattopadhyay, “La dinamica dell’economia sovietica”, in op. cit., pp. 167-196.
- Cfr. G.I Khanin, “Come e perché la NEP è morta. Riflessioni di un economista”, in op. cit., pp.197-2018.
- Cfr. Mark Harrison, “I fondamenti dell’economia di comando in Unione Sovietica”, in op. cit., pp. 125-166.
- Cfr. Jaques Sapir, “Alexei Kosygin e il destino dell’URSS”, in op. cit., pp. 2019-240.
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