di Alessandro Mantovani
La sorpresa
C’è poco da fare, l’entrata in scena dei gilets jaunes (GJ) ha colto
tutti di sorpresa, chi più chi meno. Fra quelli più stupiti dobbiamo
mettere, oltre alle “autorità”, i marxisti e gli operaisti vecchio
stampo: costoro, applicando schemi del passato, non si aspettavano che
il primo movimento nazionale di massa contro la “globalizzazione” ed il
“neoliberismo” post 2008 scaturisse dalle “classi medie” (sarà chiaro
oltre perché ho posto le virgolette a questa espressione). D’altronde
lotte recenti importanti, evocatrici e anticipatrici come quelle di
Ryanair, Amazon e Google potevano alimentare l’idea che la spallata
dovesse iniziare tra i nuovi proletari del XXI secolo nei quali,
similmente ai gilet gialli, poco o nulla contano sindacati e partiti
tradizionali. I più stupiti di tutti? Quelli secondi cui le classi medie
dovevano sparire o quasi, per lasciare il posto ad una bella lotta di
classe proletaria dura e pura e, per converso, quelli che pensano
superata la legge del valore e attendono un movimento di liberazione
della “moltitudine” attestata su richieste altisonanti come “rifiuto del
lavoro”, “reddito di cittadinanza”, “beni comuni” e via andando, ben
lontani dalle prosaiche istanze “poujadiste” (anti-fiscali e
qualunquiste) che hanno inizialmente acceso la miccia del malcontento
generale.
Tra quelli meno sorpresi i movimenti NOTAV, NO TAP ecc. in Italia, Bure
in Francia, ed altri, già abituati a ragionare in termini di
trasversalità e di pluriclassismo all’interno dei territori. Ma sorpresi
comunque per la fulmineità, l’ampiezza, la radicalità del movimento GJ,
e magari anche qui per la trivialità delle sue rivendicazioni di
partenza.
Tale sorpresa, e di conseguenza l’incompletezza o inadeguatezza delle
prime analisi del fenomeno sono comprensibili ed inevitabili.
Comprensibili perché ogni grande movimento, ma questo in particolare,
presenta sempre aspetti nuovi ed inattesi, i quali dipendono dalla
congiunzione di diversi fattori e da tutta l’evoluzione storico-sociale
che li precede, e sono dunque destinati a soverchiare gli schemi con cui
si è prima ragionato.
Inevitabili perché le griglie interpretative adottate per orientarsi nel
nuovo non possono essere, in un primo momento, che quelle suggerite
dalle esperienze dei movimenti del passato, le quali, sia pur non
sufficienti, sono pur sempre l’unico materiale da cui partire. A patto
di non fermarsi ad esse, di studiare il movimento nella sua specificità
ed originalità, di apprendere da esso per procedere oltre, verso la
formulazione di nuove ipotesi di critica teorica e di lavoro
rivoluzionario.
Vediamo dunque quali sono gli schemi del passato, cosa hanno ancora da dirci, come superarli. E cosa insegna il nuovo movimento.
Gli schemi
Nel discorso marxista tradizionale, ciò che rende il proletariato, in
particolare di fabbrica, classe rivoluzionaria, non dipende soltanto
dalla qualità del lavoro alienato, che per emanciparsi deve per forza di
cose negare il capitale, ma altresì dalla sua possibilità e capacità di
organizzazione autonoma. L’emergenza di una specifica lotta di classe
proletaria indipendente è infatti legata, in questo schema, risalente al
Manifesto del 1847, al processo secondo cui il proletariato, in
particolare di fabbrica, diviene non solo sempre più numeroso, ma anche,
e soprattutto, più concentrato ed omogeneo.
Per quanto riguarda le classi medie, nello schema esse sono destinate in
parte a scomparire, proletarizzandosi, e, nella misura in cui
persistono, ad oscillare politicamente tra proletariato e borghesia,
senza ruolo autonomo. Ed in effetti le classi medie tradizionali,
proprietarie dei propri mezzi di produzione, tipiche di condizioni
precapitalistiche, sono, nell’Occidente, pressoché scomparse. Ma la
società borghese e la lotta di classe non si sono semplificati al punto
che lo schema poteva suggerire: tra proletariato e borghesia sono sorti e
persino cresciuti strati intermedi (intellettuali, tecnici, quadri,
ceto impiegatizio, ecc.) che rappresentano una quota consistente della
popolazione attiva. Torneremo in seguito più dettagliatamente su questo
punto.
Ora, tutti gli osservatori concordano nell’individuare la radice del
movimento dei gilets jaunes nel processo d’impoverimento che ha
interessato, in particolare dopo la crisi globale del 2008, ampi strati
della popolazione: proletari, semiproletari, strati intermedi, classi
medie.
Si tratta dunque – sempre secondo lo schema tradizionale – d’un movimento interclassista.
Ciò è vero ma non racconta tutta la storia, non affronta in modo
concreto la composizione di questo proletariato e di questi strati
intermedi nella fase attuale, ossia il modo in cui essi si sono evoluti e
trasformati nel corso della fase post-fordista del capitalismo fino ad
oggi.
Ciò che è cambiato
Non è questo, nel segno dell’attualità, il luogo di un’indagine
approfondita. In estrema sintesi, però, il processo di trasformazione
della composizione delle classi medie e del proletariato, nel periodo
post-fordista, si presenta (si consulti ad es. il secondo capitolo del
rapporto Istat 2017) come processo di:
1) Diminuzione del numero, della concentrazione e della forza politica del proletariato industriale,
al punto che l’espressione “classe operaia” – giustificata quando la
fabbrica era il centro d’avanguardia del movimento proletario e il
serbatoio della sua forza – non può più essere accettata e va senz’altro
sostituita con quella scientificamente corretta: “classe proletaria”.
Ciò non comporta di per sé una diminuzione della forza potenziale del
proletariato industriale, il quale, pur ridotto di numero, comanda
impianti industriali di dimensioni anche maggiori rispetto al passato, i
quali, una volta fermi (si pensi ad es. alle raffinerie, alle centrali
elettriche, con pochissimi addetti ma cruciali dal punto di vista
strategico), porrebbero in ginocchio l’intera economia.
Il problema è tuttavia che gli impianti industriali di oggi non sono più
abitati da salariati impiegati dall’azienda madre con condizioni
contrattuali relativamente omogenee: questi sono oggi una parte ridotta
circondata da attività terziarizzate ed esternalizzate, e quindi da
salariati divisi non solo più per livello, ma per categoria, datore di
lavoro, tipo di contratto, orario e così via, spesso precari o soci di
cooperative.
L’ organizzazione di questo tessuto composito diventa dunque assai più problematica.
Costituisce eccezione a questa tendenza l’aumento del proletariato dei
trasporti: ferroviari, urbani, aerei, navali, settore strategico con una
potenzialità offensiva enorme, ma con una forza più disseminata.
2) Consistente aumento percentuale, e predominanza in termini percentuali ed assoluti, del proletariato impiegato nei servizi (ospedali,
scuole, poste, telefonia, commercio, ristorazione, turismo). È
principalmente dovuto a questo settore il fatto che, sia in termini
assoluti, sia in percentuale sulla popolazione attiva, la condizione
proletaria è più diffusa rispetto al passato. In questo ambito un
incremento gigantesco, che potrebbe diventare a certe condizioni peso
politico, è avvenuto nel settore, largamente inteso, della logistica,
settore strategico, assieme ai trasporti, dell’odierna fase
capitalistica. Tuttavia questi segmenti di proletariato, per le
condizioni, gli orari, i turni di lavoro, solo più a fatica e
contraddittoriamente possono prestarsi ad organizzazioni fortemente
centralizzate e strutturate come quelle che in passato hanno inquadrato
le lotte del periodo fordista.
3) Relativa flessibilizzazione, precarizzazione, o addirittura disgregazione del proletariato,
soprattutto giovanile, a tal punto che, volendo usare un’espressione un
po’ sopra le righe, ma utile per andare al cuore del problema, potremmo
parlare di parziale “lumpen-proletarizzazione” di queste frange
particolarmente fragili, costrette a cambiare sovente luogo di lavoro,
tipo d’impiego, città, o ad emigrare, nella perenne ricerca di
un’occupazione, incapaci di radicarsi, di formare una famiglia, e
internamente divise da diversi tipi di contratti (a termine, interinali,
apprendistato, lavoro autonomo fasullo, cooperative, ecc.). Va da sé
che questi strati proletari e semi proletari sono difficilmente
organizzabili, almeno nei termini tradizionali.
4) Aumento della forza lavoro immigrata e migrante,
componente a sua volta fluttuante tra proletariato, sottoproletariato,
misera classe media, e divisa al suo interno da questioni etniche,
culturali e religiose. Anche in questo settore le difficoltà di
organizzazione sono palesi. Altro aspetto estremamente critico, la
separazione tra immigrati e proletariato indigeno.
5) Aumento non solo dell’esercito industriale di riserva, ma dei disoccupati cronici, e dunque, per questa via, degli strati sottoproletari. Un’alta remora all’organizzazione di classe.
6) Ulteriore relativa proletarizzazione degli strati intermedi.
Oggi la maggior parte degli strati che hanno un tenore di vita
superiore al salario medio sono funzionari, impiegati, tecnici e così
via i quali, se non sono dei senza riserve, in quanto godono di maggiori
o minori proprietà immobili o mobili, sono tuttavia dei salariati. Il
che significa un’adozione da parte di questi strati di forme di lotta
quali lo sciopero e di rivendicazioni tipiche del proletariato (salario,
orario, condizioni di lavoro ecc.). Aspetti che possono dar luogo, in
certi momenti di mobilitazione, ad un avvicinamento politico di questi
strati intermedi al proletariato, alcuni dei quali ripropongo le
condizioni che un tempo si attribuivano alla cosiddetta “aristocrazia
operaia”.
Il lavoro salariato si è ormai esteso ad ampi settori delle professioni
un tempo cosiddette liberali, dagli insegnanti, ai medici, persino agli
avvocati, e così via. Una parte consistente di questi strati, oltre ad
avere in comune col proletariato la forma del lavoro salariato, ha un
livello di vita appena al di sopra di quello del proletariato, ed
un’altra parte un livello persino inferiore. La componente giovanile di
questi strati, inoltre, vive condizioni di precarietà e mobilità
accentuate nel lavoro e nella vita sociale.
Questa evoluzione delle “classi medie” o meglio strati intermedi è
dunque favorevole allo sviluppo di una futura
estesa lotta di classe con il proletariato alla testa. Ma solo fino ad
un certo punto: non necessariamente questi strati si proletarizzano.
Essendo la fase attuale del capitalismo caratterizzata, come s’è detto,
da alti e crescenti tassi di disoccupazione cronica, una quota crescente
di classe media precipita dalla sua condizione di infimo privilegio ad
una di sradicamento, emarginazione e sotto-proletarizzazione, aspetti
che la rendono difficilmente organizzabile ed influenzabile.
7) Invecchiamento della popolazione, fenomeno che
non va assolutamente trascurato, con l’aumento del numero di persone che
percepiscono dallo stato una pensione la quale col tempo è destinata a
perdere sempre più il proprio potere d’acquisto.
In un certo qual modo, la percezione di questa rendita muta
radicalmente la condizione sociale dei proletari che accedono al
pensionamento: da produttori di plusvalore essi diventano dei miseri
“rentier” che vivono del plusvalore estorto alla classe proletaria
tuttora attiva*.
Questo aspetto, l’età e la scarsa forza che la categoria può mettere in
campo ne fanno una frangia assai difficile da organizzare e mobilitare,
benché assai sensibile ai problemi legati al costo della vita e
all’assistenza sanitaria.
Tirando le somme
Ben poche delle trasformazioni accennate si presentano, di primo
acchito, come elementi di forza nel processo di costituzione del
proletariato in “classe per sé” secondo i modelli delineati nel
Manifesto comunista: l’aumento assoluto e relativo del numero dei
proletari, la forza nelle mani dei lavoratori dei trasporti e della
logistica, la relativa proletarizzazione degli strati intermedi.
Tutte le altre, nel loro complesso appaiono piuttosto come ostacoli
oggettivi alla costituzione di un fronte e di una coscienza unitari
della classe proletaria, almeno nelle forme in cui essa si è espressa
nel periodo fordista (e precedente) del capitalismo, ovvero
principalmente a partire dal piano sindacale.
È questo l’arcano che spiega l’incapacità dimostrata dai proletari
occidentali di far fronte al peggioramento delle proprie condizioni di
vita sviluppatesi dalla metà degli anni ’70: le trasformazioni tecnologiche,
principalmente l’informatica, hanno permesso una radicale
ristrutturazione del modo di produzione, rendendo obsolete le grandi
concentrazioni di forza-lavoro stabile che avevano caratterizzato il
tessuto sociale del modo di produzione fordista e costituito la base
della forza operaia di quell’epoca ormai tramontata nell’Occidente
sviluppato.
Gli ultimi trent’anni sono quelli in cui questo profondo e drammatico
mutamento si è andato sviluppando, quelli in cui il proletariato di
fabbrica, colonna della lotta di classe proletaria precedente, ha subito
disfatte decisive e cambiamenti della sua composizione che lo hanno
indebolito ed immobilizzato. Quelli in cui un nuovo proletariato,
segmentato, precarizzato, mobile e disomogeneo è venuto crescendo; un
proletariato, soprattutto giovanile, non solo senza tradizioni di
organizzazione, bensì oggettivamente ostacolato ad organizzarsi dalla
sua stessa composizione.
È questa realtà che ha sepolto definitivamente, assieme alla forza dei
sindacati operai tradizionali, l’esistenza delle frange rivoluzionarie
formatesi sulla base delle passate tradizioni politiche.
Ipotesi e prospettive
Date queste premesse, immaginare un risorgere del conflitto di classe
sulle basi precedenti era già da tempo divenuto impossibile. Su come
esso potesse riaccendersi, si poteva solo speculare. Sulla base delle
trasformazioni in corso si poteva ipotizzare che, venuto meno il peso
preponderante del proletariato industriale e della fabbrica come centri
della lotta, e date le caratteristiche flessibili, mobili e precarie del
nuovo proletariato, una ripresa di classe, per divenire ampia e
generale, avrebbe dovuto ricorrere a forme territoriali di
organizzazione. Un requisito necessario per ambire ad esprimere i
bisogni di una classe segmentata, generalizzandoli in una piattaforma
per quanto possibile unitaria.
La risposta al quesito può venire tuttavia soltanto dai movimenti reali,
che vanno studiati per quello che sono e insegnano sugli sviluppi
futuri.
Orbene, cosa suggerisce il movimento dei giubbetti gialli?
Interclassista senza dubbio. Ma non soltanto, e non soprattutto, un
movimento delle classi medie. Esso è infatti un movimento popolare
dell’epoca contemporanea. Concetto che contiene due elementi
costitutivi, l’eterogeneità degli interessi che lo compongono e il suo
carattere di massa.
Il primo elemento, l’eterogeneità degli interessi, rappresenta il
fattore della divaricazione che in ogni momento, e per certi aspetti
immancabilmente, deve emergere all’interno degli strati che si sono
insieme mobilitati.
Il secondo elemento, il carattere di massa e popolare, il momento
unitario, la forza dirompente senza la quale, in prospettiva, nessun
movimento rivoluzionario, nemmeno nei paesi capitalisti più avanzati e
maturi (dove gli strati intermedi, abbiamo detto, rappresentano ancora
una realtà importante) può sperare di travolgere il potere
capitalistico.
In questo carattere di massa si intravvedono pertanto già alcune
caratteristiche e forme che il movimento proletario dovrà
necessariamente assumere in futuro. Ne è, in modo ancora informe, un
annuncio.
Esso nasce al di fuori di ogni mediazione sindacale e politica
preesistente, affidando la propria capacità di organizzazione alla rete e
ai social network, e integra diversi strati su un terreno che non è
immediatamente sindacale ma sociale, che non è di fabbrica ma
territoriale. Esercita la sua forza al di fuori della fabbrica,
bloccando le arterie di comunicazione, le raffinerie, i depositi di
carburante, le città. Passa da momenti di organizzazione diffusa nel
territorio ad iniziative centrali in luoghi strategici e simbolici (ad
es. i Champs-Elysées della capitale francese), usa la sorpresa per disorientare
l’avversario, realizza nei diversi contesti convergenze tra frange
diverse della popolazione (ad es. coinvolge gli agricoltori nelle zone
rurali, gli infermieri nelle città, e così via).
Questo non significa, come qualcuno pensa, che il movimento sindacale
debba sparire. Lotte come quelle recenti di Ryanair, Amazon, della
logistica in Italia, mostrano che anche il movimento economico, è
destinato, sia pur su basi nuove, a rafforzarsi e in certo modo a
rinascere nelle nuove categorie di lavoratori finora disorganizzate.
Significa però che non potrà avere la centralità goduta nel periodo
fordista.
Per trascinare la classe nel suo insieme, data la sua composizione
attuale, le forme della lotta di classe del periodo post-fordista
dovranno poter esprimere, da una parte una maggior pluralità di
interessi, dall’altra rivendicazioni abbastanza generali da poter
interessare al momento stesso i più diversi segmenti del proletariato.
In questo senso il movimento dei gilet gialli, che sinora ha visto
l’egemonia degli strati intermedi e l’assenza d’identità di classe dei
numerosi proletari che pur vi partecipano (essi anzi sono via via
divenuti maggioranza), sembra mostrarci in modo rovesciato il terreno
sul quale in futuro potrà esercitare la sua egemonia un proletariato in
grado di esprimere in modo autonomo i propri interessi di classe e le
proprie forme di lotta, portando dalla propria parte gli strati
semiproletari, conquistando la parte più vicina degli strati intermedi e
separandosi nettamente dagli strati superiori delle classi medie.
Ciò si traduce, oggi, nella necessità di non rimanere alla finestra.
Il nero fu fino al primo dopoguerra il colore dei ribelli, degli
anarchici e dei proletari. Fu poi fatto proprio dal fascismo. Il giallo è
stato il colore dei sindacati padronali e dei crumiri. Anch’esso può
cambiare significato.
Chi attende per schierarsi un bel movimento di tute blu munito di rosse bandiere merita di finire al museo.
“L’errore più grave in cui possono cadere dei rivoluzionari è quello di
guardare indietro, verso le rivoluzioni del passato, mentre la vita
apporta tanti elementi nuovi, che bisogna inserire nella catena generale
degli eventi” (V.I. Lenin, Opere complete, vol. 24, pp. 135-136).
Fonte
Testo interessantissimo per gli spunti di analisi che offre. Questa (*) affermazione è però un po' troppo tagliata con l'accetta perché a rigor di logica, e fuori dal funzionamento che sottende la struttura dei vari fondi pensione provati, piuttosto che le storture con cui è governato un ente pubblico come l'INPS, la pensione è salario differito, quindi il pensionato, una volta raggiunto l'agognato traguardo, vive di parte del plusvalore che ha prodotto direttamente e "messo via" nel corso dell'attività lavorativa.
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