Potere al Popolo! ha recentemente lanciato un invito al dibattito ed al confronto sull’Europa, in vista delle elezioni europee del 2019. Accogliamo l’invito e pubblichiamo il nostro primo contributo sul tema.
Il dibattito politico è costruito sulla retorica, in particolare sulle figure retoriche. Una di queste è la cosiddetta “falsa dicotomia”: si riduce il discorso politico a due alternative, reciprocamente esclusive e, contemporaneamente, onnicomprensive. Per circa un ventennio, in Italia, le alternative del discorso politico sono state rappresentate dal centrosinistra e dal berlusconismo. I tempi, però, cambiano, e la falsa dicotomia più in voga di questi tempi è senz’altro quella che contrappone europeisti e nazionalisti.
Gli europeisti, siano essi uomini politici o semplici cittadini, di fronte alle critiche all’Unione Europea, ai Trattati e all’austerità, agitano lo spauracchio del ritorno al nazionalismo. Sì, certo, si può criticare l’intransigenza della Commissione Europea, si possono chiedere “margini di flessibilità”, ci si può mettere alla ricerca di un’Altra Europa (con Tsipras o con Varoufakis – più o meno), ma se non si considera il processo di integrazione economica europea come un luminoso esempio di progresso dell’umanità, si viene immediatamente relegati nel girone infernale dei nazionalisti, dei barbari feticisti dei confini, dei bacchettoni fustigatori dell’Erasmus. In una sola, terribile, parola: dei “sovranisti”.
D’altra parte, molti tra i critici dell’integrazione europea, anche a sinistra, non riescono a mettere in discussione i dogmi dell’austerità senza cadere nella tentazione di dipingere il ritorno alla sovranità dello Stato nazionale come la panacea di tutti i mali. Questo si può declinare in varie tonalità, dal nazionalismo puro e semplice a posizioni apparentemente più sfumate. Spesso, in ogni caso, questa visione sfocia in un atteggiamento di chiusura verso le migrazioni dai paesi africani, con motivazioni che vanno dal famigerato piano Kalergi a capolavori di ipocrisia quali “sarebbe giusto aiutarvi, ma siamo già troppi, contribuite a ridurre i salari, quindi chiudiamo le frontiere e aiutatevi a casa vostra”.
Questa dicotomia, lo dicevamo in apertura, è pura retorica. Si può criticare l’Europa senza essere nazionalisti e si può rifiutare il nazionalismo senza essere austeri e plutocratici turbocapitalisti edonisticamente sorosiani. Lo si può fare quando si ha ben chiaro in mente che la divisione che conta, oggi come centocinquant’anni fa, è quella di classe: tra sfruttati e sfruttatori. Se si dimentica che, al di sotto delle manifestazioni esteriori, cova tale conflitto, i risultati possono essere disastrosi: un elettorato polarizzato tra l’accettazione acritica (o fintamente critica) dell’austerità, alimentata dallo spauracchio dello spread, e la chiusura reazionaria, poliziesca e razzista.
Avendo ben in mente, invece, le divisioni che contano, si può cercare di smontare il meccanismo della falsa contrapposizione tra nazionalisti ed europeisti. Si può far notare che l’opposizione alle politiche di austerità, disoccupazione e contenimento salariale insite nell’architettura economico-finanziaria europea, non comporta necessariamente l’adesione alla visione della chiusura dei confini come una soluzione. E, allo stesso tempo, è possibile affermare che il ripudio del nazionalismo fine a sé stesso e della chiusura delle frontiere non implica affatto l’accettazione delle politiche di austerità e dell’apertura incondizionata dei mercati dei capitali, alla ricerca dei Paesi con i salari più bassi e i diritti dei lavoratori più evanescenti. Così facendo, è possibile liberarsi da un dibattito spesso inutile e cervellotico su quale possa essere la dimensione ‘ideale’ nella quale la lotta per l’emancipazione dei lavoratori si debba estrinsecare, spostando l’attenzione sulla dimensione ‘reale’ nella quale esercitare il conflitto. Da un lato appare evidente come l’architettura istituzionale europea sia costruita per depoliticizzare e sterilizzare la dialettica tra classi, per espropriare la stragrande maggioranza della popolazione anche solo della possibilità di incidere e provare a cambiare l’esistente. Dall’altro, la dimensione nazionale – sgombrato il campo dai feticismi che infettano l’analisi di novelli nazionalisti ed amanti delle frontiere – appare, semplicemente, come un perimetro all’interno del quale il potere è oggi perlomeno contendibile.
Con le lenti della lotta di classe, dunque, è facile vedere che la scelta tra europeisti e nazionalisti è, in realtà, la classica scelta su “di che morte morire”. Che la scelta che ci viene posta è quella tra liberismo europeo e liberismo nazionale, tra neoliberismo e neocorporativismo. Vista così, la dicotomia europeismo-nazionalismo perde totalmente di senso perché contrappone due opzioni politiche che condividono una visione di fondo pressoché identica del funzionamento dei rapporti economici: un’idea di società basata sullo sfruttamento che può essere combattuta solo se iniziamo a divincolarci da queste false alternative che paralizzano l’azione strategica. Tanto i nazionalisti quanto gli europeisti negano la contendibilità di quello spazio politico che invece è il principale campo di battaglia, e cioè il luogo dove si conquista il ‘potere di decidere’. I nazionalisti la negano sovrapponendovi i confini dello Stato nazionale: secondo loro basta riappropriarsi della sovranità nazionale per risolvere tutto, come se nello Stato nazionale non si riproponesse tale e quale il problema della lotta per il controllo del potere, il conflitto tra sfruttati e sfruttatori. In realtà, essi condividono lo stesso paradigma economico dei loro apparenti avversari, e lo si nota nella loro arrendevolezza quando si tratta di affrontare davvero l’austerità e il liberismo che stanno macellando le economie dei paesi europei e le classi subalterne. Gli europeisti, dal canto loro, ci vendono la droga della cessione di sovranità promettendoci uno spazio politico nell’aldilà dell’Europa dei popoli che non si realizzerà mai, mentre ci negano ogni spazio politico storicamente dato a botte di direttive, regolamenti, trattati e spread.
L’Italia, sotto questo aspetto, offre un punto di vista privilegiato sul tema. La principale forza politica nazionalista – la Lega di Salvini – ha conquistato il Governo promettendo di restituire al Paese un briciolo di sovranità per poi continuare a praticare le politiche di austerità dei precedenti governi, rigorosamente europeisti, che ci hanno condotto al disastro sociale che ci ritroviamo davanti. Questa continuità di politiche che stiamo sperimentando sulla nostra pelle dimostra, una volta per tutte, che dietro alla falsa contrapposizione tra europeisti e nazionalisti continua a regnare sovrana (è proprio il caso di dirlo) l’austerità, la povertà diventa sempre di più un reato da perseguire o, al massimo, da curare con l’elemosina di Stato del reddito di cittadinanza o con una versione di prova di quota 100, mentre gli spazi sociali sono considerati angolini da ripulire. Con tanti saluti a chi sosteneva che bisognava turarsi il naso e che questo Governo avrebbe fatto qualcosa di buono per i lavoratori!
Diventa indispensabile spezzare le catene mentali imposte da questo modo di dipingere la realtà, che ha l’obiettivo di nascondere le vere linee di frattura che caratterizzano l’attuale assetto dei rapporti di forza tra le classi. In questo modo, diventa più facile dire, senza ambiguità, che l’Unione Europea è una trappola mortale per i lavoratori e, contemporaneamente, che il puro e semplice ritorno alla sovranità degli Stati senza lotta di classe non porta a nulla. Lo sforzo potrà essere titanico, in quanto le parole d’ordine di europeisti e nazionalisti sono molto più semplici. Eppure, è uno sforzo che va fatto, perché soltanto sgombrando il campo dalle finte contrapposizioni, si potrà portare in piena luce il più semplice, concreto e lineare dei discorsi, ovvero quello della contrapposizione tra sfruttatori e sfruttati.
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