Ormai da tempo, anche da prima del referendum di due anni fa, quando si parla di Gran Bretagna il discorso si incentra quasi esclusivamente sulla “Brexit”. Una questione basilare, per le prospettive che può aprire non solo in terra britannica; ma che, allo stato attuale, sembra ancora in larga parte da decifrare con esattezza, tanto che c’è chi accusa lo stesso leader laburista Jeremy Corbyn, di voler “tenere il futuro oltre Manica avvolto nella nebbia”.
Ci sono però alcuni dati che, al contrario, risultano chiarissimi da tempo, perlomeno dall’ultimo decennio di austerity, fatto di sforbiciate alla spesa pubblica, spending review, tagli a salari, pensioni e assistenza sociale.
Secondo una recente inchiesta condotta dal relatore speciale dell’ONU, Philip Alston, circa 14 milioni di cittadini britannici vivono in povertà; uno su 200 (1 su 52 a Londra) vive in alloggi di fortuna; l’impossibilità di scaldarsi e le ripetute privatizzazioni nell’assistenza sanitaria, pare abbiano causato 50.000 morti “in eccesso” lo scorso inverno; un terzo di bambini britannici vive in condizioni di miseria. E ancora: due milioni e mezzo di lavoratori sono appena al di sopra della soglia di povertà e un altro milione e mezzo è completamente indigente. Questo, per quanto riguarda i lavoratori; stando al The World Factbook della CIA, nel 2017 l’isola aveva un tasso di disoccupazione del 4,4% (le stime ufficiali britanniche parlano ora di 4,1%) che la poneva al 61° posto mondiale e, per i disoccupati le condizioni sono ovviamente ancora più disperate.
Le cifre sulle condizioni di povertà sono confermate anche dalla Social Metrics Commission, un “organismo trasversale indipendente, con credenziali borghesi impeccabili”, chiosano i comunisti del PCGB (m-l) e ancora la CIA fissava al 15%, nel 2013, la popolazione al di sotto della soglia di povertà. La Fondazione Joseph Rowntree quantifica al 22% i cittadini poveri – 8,2 milioni di lavoratori, 4 milioni di minori e 1,9 milioni di pensionati – e prevede che la povertà infantile, cresciuta di 500.000 unità negli ultimi cinque anni, potrebbe aumentare di un altro 7% entro il 2022.
Nella sua relazione al UNHRC, riportata dal The Guardian, Philip Alston dice che queste cifre “non sono solo una disgrazia, ma una calamità sociale e un disastro economico”. Ma l‘impoverimento “dei lavoratori britannici non è venuto fuori dal nulla” scrive il PCGB (m-l) e non sono effetto della Brexit; a partire dal “crollo finanziario del 2009, quando il governo laburista di Gordon Brown riversò quasi tutte le entrate fiscali annuali, 850 miliardi di sterline, nel salvataggio dei banchieri, c’è stata una stretta concertata sulle spese pubbliche e un’azione di retroguardia dei capitalisti per recuperare le loro perdite a spese della classe operaia”. E’ stato un susseguirsi di attacchi a salari e condizioni dei lavoratori, a pensioni, contributi e prestazioni sociali, istruzione, alloggi, strutture sanitarie e assistenziali. Contemporaneamente, sono andati alle stelle i prezzi degli immobili, i canoni di affitto, i generi alimentari e le tariffe domestiche.
“Efficienza del mercato” era il mantra di Tony Blair e del suo cancelliere per le finanze Gordon Brown, ricorda il PCGB (m-l): “non appena il Labour ebbe messo le mani sulle leve del potere parlamentare, Brown, Blair e il Segretario alla salute Frank Dobson si dettero da fare per pompare miliardi di sterline nelle borse della finanza privata e procurare dividendi del 700% ai banchieri salvati”. Le attuali condizioni economiche, dicono ancora i comunisti britannici, sono un prodotto del “modello economico sfrenato del capitalismo del libero mercato nella sua fase di monopolio. La concentrazione del capitale, della ricchezza della società, in sempre meno mani, è una legge economica ferrea, che sta impoverendo enormi fasce della popolazione mondiale”.
Solo dopo un procedimento giudiziario, il Dipartimento del lavoro e delle pensioni (DWP) è stato ora costretto ad ammettere che tra il 2011 e il 2014 circa 2.400 persone sono morte nel giro di pochissime settimane, dopo esser state dichiarate “idonee al lavoro” dalle commissioni mediche previste nelle strutture introdotte dal governo laburista nel 2008 – le Employment and Support Allowance (ESA) – che hanno sostituito l’indennità di inabilità al lavoro per le persone invalide. I richiedenti il sussidio devono superare una valutazione di idoneità al lavoro (WCA) e coloro che risultano idonei vengono inseriti in gruppi per le attività lavorative (WRAG), dopo di che hanno un anno per trovare lavoro o perdere i sussidi.
Ora, secondo l’Office for National Statistics, allo scorso ottobre c’erano circa 1,38 milioni di disoccupati, 20.000 in più rispetto a maggio a luglio 2018, ma 49.000 in meno rispetto all’anno precedente. Il tasso di disoccupazione è stimato al 4,1%; il tasso di inattività economica (studenti, congedi per malattia di lunga durata, pre-pensionati, persone che hanno smesso di cercare lavoro) era stimato al 21%: livello più basso da quando sono state avviate le stime comparate nel 1971. Circa 8,7 milioni di persone tra 16 e 64 anni erano economicamente inattive: 195.000 in meno rispetto a un anno prima. Sempre a ottobre, erano registrate 32,4 milioni di persone nel mondo del lavoro: 261.000 in più rispetto a un anno prima e il tasso di occupazione era del 75,5% (75,3% nel 2017).
Dunque: Brexit e povertà? Brexit e disoccupazione? Cataclismi, diluvi e giudizi universali, come pronosticano gli angeli custodi d’Europa di fronte alla prospettiva di una “Italexit” che nessun “governo del cambiamento” ha mai davvero avuto in mente?
Il cancelliere ombra laburista John McDonnell ha detto che il suo partito sosterrà un referendum sull’accordo se non si terrà un’elezione generale; la risoluzione laburista sulla Brexit, sostiene il PCGB, stabilisce “condizioni quasi impossibili per qualsiasi accordo e pone il veto a una Brexit no-deal: in effetti, mettendo il Labour esattamente contro la Brexit”.
La Brexit causerà indubbiamente perturbazioni e shock economici a breve termine, scrivono i comunisti britannici; ma rimanere nella UE significa “rafforzare un club imperialista anti-operaio, anti-sindacale, anti-socialista, che preme sull’agenda delle privatizzazioni e dell’austerità in Gran Bretagna e in tutta Europa”. La liberalizzazione a ogni costo sta guidando “allo stesso modo Theresa May, Boris Johnson e il partito laburista. L’ideologia fondamentale del Labour è quella di mantenere il sistema del capitalismo monopolistico, e quindi del sistema della schiavitù salariale. Senza alcun tentativo di affrontare questa fondamentale ingiustizia, da cui derivano tutte le altre, compresa la povertà infantile, ogni nobile discorso è solo una vetrina della speranza sulla realtà”.
Non è la Brexit a generare disoccupazione e povertà: è il sistema capitalista che, di per sé, si regge su quei due cardini della rovina delle masse e che, in Gran Bretagna, secondo il Global Wealth Report del Credit Suisse Research Institute, fa sì che l’1 % dei più ricchi detenga oltre il 50% della ricchezza del paese.
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