Potere al Popolo! ha recentemente lanciato un
invito al dibattito ed al confronto sull’Europa, in vista delle
elezioni europee del 2019. Accogliamo l’invito e pubblichiamo il nostro
secondo contributo sul tema.
Cosa ci chiede l’Europa
lo sappiamo fin troppo bene: con la sua disciplina fiscale ci chiede di
tagliare la spesa pubblica in sanità, istruzione, cultura, sicurezza,
infrastrutture e di ridurre le pensioni; con il suo modello di economia
di mercato ci chiede di competere con i salari di paesi dove lo
stipendio mensile lordo non supera 400 euro, di accettare una crescente
precarietà del lavoro e dei tempi di vita attraverso le
liberalizzazioni, di rinunciare a qualsiasi forma di controllo pubblico
sull’economia, dalle grandi reti infrastrutturali ai servizi pubblici
locali. Ci chiede, insomma, tutto quello che i Governi degli ultimi 30
anni hanno scrupolosamente realizzato: che partissero da centrosinistra,
da centrodestra, oggi addirittura da una piattaforma populista, tutti
hanno seguito la stessa direzione, quell’austerità che ha portato in
Europa una crisi che in tempi di pace non si vedeva da quasi un secolo. Ma perché l’Europa ci chiede questo?
Le risposte più comuni a questa domanda,
affatto banale, sono due. La risposta dell’Europa e degli europeisti è
la seguente: in Italia, così come in tutta la periferia europea, abbiamo
vissuto al di sopra delle nostre possibilità, con un modello di
sviluppo incompatibile con la dimensione globale che il progresso
tecnico impone ai sistemi produttivi moderni; i sacrifici derivanti
dall’abbandono di questa organizzazione sociale obsoleta e insostenibile
sarebbero più che compensati dal futuro radioso che l’affermazione di
una moderna economia di mercato spontaneamente realizzerà. La risposta
di molti euroscettici non mette in discussione gli obiettivi dichiarati
dalle istituzioni europee, che sarebbero sempre quelli di garantirci un
futuro migliore nel turbinio della globalizzazione, ma critica piuttosto
la messa in pratica di questo progetto: secondo alcuni l’Europa sarebbe
un grande errore, un’istituzione mal congegnata, un’unione economica
incompleta condannata al fallimento dalle teorie economiche sbagliate su
cui è disegnata. Questi critici dell’Europa, dunque, tendono a
dipingere l’ostinazione con cui le istituzioni comunitarie procedono sul
solco dell’austerità come una mera follia, frutto di fanatismo
ideologico e causa di una prossima implosione del progetto di
integrazione europea. In quanto segue, proveremo a tracciare i contorni
di una terza risposta.
Una volta inserito nella storia della lotta di classe,
il progetto di integrazione europea si mostra per quello che è: un
formidabile strumento di disciplina dei lavoratori concepito per
ribaltare i rapporti di forza che si erano andati consolidando fino agli
anni Settanta, la forma assunta dalla restaurazione neoliberista in
un’Europa dove i diritti conquistati metro dopo metro dai lavoratori
iniziavano a mettere in discussione l’ordine economico e sociale. Quando
le principali economie europee viaggiavano verso la piena occupazione,
il ricatto del licenziamento si faceva meno opprimente ed i lavoratori
trovavano il coraggio e la forza di organizzare le loro lotte sia sul
piano sindacale che sul piano politico, fino a progettare la rivoluzione
verso un modello alternativo di società fondato su principi di
uguaglianza e solidarietà che, pur con mille contraddizioni, dimostrava
di poter esistere appena oltre la cortina di ferro e, anche solo per
questo motivo, toglieva il sonno agli sfruttatori di tutta l’Europa
occidentale.
Libertà di movimento di merci e capitali, ovvero libertà di sfruttamento del lavoro
Sebbene il percorso di integrazione
europea prenda avvio con il Trattato di Roma del 1957, che istituisce la
Comunità Economica Europea (CEE), solo nel 1968 viene sancito il primo
vero passaggio verso la costruzione del mercato unico europeo: la
completa liberalizzazione dei movimenti di merci con l’abbattimento dei
dazi. Negli anni ’80 si procede a passi da gigante alla liberalizzazione
dei movimenti di capitale, con l’Atto Unico del 1986 che definisce le
linee guida dell’apertura integrale delle frontiere ai movimenti di
denaro, apertura che verrà sancita definitivamente con il Trattato di
Maastricht del 1992. Da allora i capitali sono liberi di migrare da un
paese ad un altro senza alcuna restrizione e senza pagare alcuna imposta
per il loro trasferimento. Il combinato disposto di queste due libertà è
un salto di qualità nella capacità di sfruttamento del lavoro: se i
lavoratori di un Paese non si piegano, e pretendono salari elevati e
diritti, la libertà di movimento dei capitali consente alla produzione
di trasferirsi altrove
e la libertà di movimento delle merci garantisce che non sia
compromessa la capacità di vendere quel prodotto nel mercato unico,
incluso il paese da cui si è delocalizzata la produzione. Sulla libertà
di merci e capitali si costruisce dunque l’oppressione del lavoro. È
infatti evidente che qualsiasi normativa che volesse aumentare i gradi
di tutela dei lavoratori, ridurre l’orario di lavoro, fissare un salario
minimo orario, aumentare le norme di sicurezza sui luoghi di lavoro,
mettere al bando tutti i contratti precari, ripristinare una disciplina
restrittiva sulla libertà di licenziamento e via dicendo, si
scontrerebbe sempre con la minaccia di una fuga di capitali verso
sistemi normativi più favorevoli ai profitti.
Il medesimo ricatto si propone anche sul
piano della tassazione, dove si crea una concorrenza al ribasso sui
sistemi tributari: qualsiasi impresa è chiamata a competere con quelle
residenti nei paesi a minor pressione fiscale sul capitale. Il risultato
è una pressione competitiva che si scarica sui salari dei lavoratori e
si traduce nella minaccia di delocalizzazione,
producendo in ultima istanza una spinta tutta politica alla
compressione delle tasse sui redditi da capitali – progressivamente
ridotte in tutta Europa. Senza controlli dei movimenti di merci e
capitali appare impossibile esercitare una seria redistribuzione del
reddito attraverso un sistema fiscale progressivo.
La disciplina fiscale e il ricatto del debito
Il Trattato di Maastricht, inoltre, fissa una serie di vincoli all’uso del bilancio pubblico, stabilendo limiti al ricorso al debito pubblico
attraverso due parametri: il rapporto tra debito pubblico e PIL deve
tendere al 60% del PIL ed il rapporto tra disavanzo pubblico (la
differenza tra spese ed entrate dello Stato nell’anno) e PIL non può
superare il 3%. L’Italia, proprio a partire dai primi anni Novanta ed in
coerenza con quei vincoli, ha realizzato una serie praticamente
ininterrotta di avanzi primari (un eccesso di entrate sulle spese,
escluse le spese per interessi sul debito) che hanno sottratto ogni anno
risorse all’economia, alimentando la disoccupazione, indebolendo la
domanda aggregata e creando le condizioni per l’attuale situazione di
stagnazione. Il ricorso alla spesa pubblica in disavanzo è storicamente,
infatti, lo strumento principale per stimolare l’economia e perseguire
l’obiettivo della piena occupazione, proprio quella piena occupazione
che negli anni Settanta aveva dato linfa alla lotta di classe dei
subalterni. Nel 2012 le istituzioni europee approfittano
dell’instabilità politica generata dalla crisi per far sottoscrivere ai
Paesi membri il Fiscal Compact, che inasprisce la disciplina fiscale in Europa imponendo il principio del pareggio di bilancio, dunque mettendo fuori legge il ricorso al disavanzo pubblico.
Oltre alla disciplina fiscale inscritta nei Trattati, l’Europa impone ai Paesi membri anche la disciplina dei mercati finanziari,
attraverso l’operato della Banca Centrale Europea (BCE). La politica
monetaria è la chiave di volta della stabilità finanziaria di un Paese,
perché la banca centrale ha il potere di emettere moneta e può
impiegarlo per sostenere il corso delle attività finanziarie che hanno
una rilevanza sistemica, in primis i titoli del debito pubblico. La crisi finanziaria USA è stata arginata attraverso acquisti incondizionati di Treasuries,
i titoli pubblici americani, da parte del Federal Reserve System, ossia
la banca centrale degli Stati Uniti. Lo stesso non è successo in Europa
dove la BCE – a partire dalla Grecia – ha negato quel sostegno
incondizionato al debito pubblico che da solo può garantire la stabilità
finanziaria; al contrario, l’autorità monetaria europea ha subordinato
il suo intervento, di volta in volta, all’accettazione delle politiche
neoliberiste del rigore fiscale, della deflazione salariale, delle
liberalizzazioni e privatizzazioni. Attraverso la BCE, l’Europa ha posto
l’austerità come condizione della stabilità finanziaria dei paesi
Membri: se un Paese non è perfettamente allineato ai dettami della
Commissione Europea, perde il sostegno della banca centrale sui mercati
finanziari e finisce per essere esposto alla speculazione finanziaria. È
il ricatto dello spread che ha messo in ginocchio l’intera
periferia europea a partire dal 2009. In questa maniera la politica
monetaria è diventata uno strumento disciplinante delle politiche
economiche nazionali, strumento adoperato dalle istituzioni europee per
imporre il disegno politico neoliberista dell’austerità.
La camicia di forza del cambio fisso
L’architettura istituzionale europea si
completa con un terzo pilastro, costituito dal processo di fissazione
del tasso di cambio tra paesi che hanno poi aderito alla moneta unica,
l’euro, a partire dal 2002. Anche questo processo prende avvio negli
anni Settanta, con la creazione del cosiddetto ‘Serpente monetario’ nel
1972 – un primo margine di fluttuazione ristretto per i cambi dei paesi
europei – e poi con la formazione del Sistema Monetario Europeo nel
1979, il preludio all’Unione Monetaria sancita dal Trattato di
Maastricht.
Nel contesto del mercato unico, dominato
dalla libertà di movimento dei capitali e delle merci, la fissazione dei
rapporti di scambio tra le valute dei paesi europei impone alle
economie nazionali un vincolo esterno, concentrando tutta la pressione
derivante dalla concorrenza internazionale sul costo del lavoro. Il
meccanismo dei cambi fissi prevede infatti l’impossibilità di ricorrere
alla svalutazione della moneta nazionale, e dunque sottrae dall’alveo
della politica economica uno strumento fondamentale di stimolo della
produzione. La leva del tasso di cambio permette, infatti, ad un Paese
di rendere le proprie merci più competitive all’estero riducendone il
prezzo senza dover comprimere direttamente i salari dei lavoratori: le
cosiddette svalutazioni competitive rappresentavano, nell’Italia del
dopoguerra, un vero e proprio compromesso tra le rivendicazioni dei
lavoratori e le resistenze delle imprese. Il vincolo esterno dei cambi
fissi ha reso impossibile questo compromesso, costringendo così le
imprese – esposte alla concorrenza internazionale – a guadagnare margini
di competitività solo sulla pelle dei lavoratori.
L’Unione Europea appare, nella sua evoluzione, come uno strumento pensato esattamente per depotenziare il conflitto di classe dal basso verso l’alto,
un’arma di difesa del profitto agitata contro i lavoratori per imporre
la restaurazione neoliberista in Europa. Per questo le istituzioni
europee ci appaiono programmaticamente e strutturalmente irriformabili:
la loro funzione essenziale è proprio quella di disciplinare il lavoro e
sottometterlo – attraverso disoccupazione, disuguaglianze e precarietà –
al dominio del capitale. Il progetto di integrazione europea ha
costruito uno spazio non politico e non contendibile, sottraendo alla
maggioranza della popolazione qualsiasi forma di controllo sul governo
dell’economia e sull’organizzazione sociale. La riprova della
irriformabilità dell’Unione Europea può essere trovata facilmente anche
sul piano giuridico: per modificare i trattati istitutivi occorre
raggiungere l’unanimità dei 27 Paesi membri, il che significa che
risulta impossibile concepire una qualsiasi forzatura dell’architettura
istituzionale europea verso una maggiore attenzione ai temi sociali e ai
diritti dei lavoratori; se pure tutti i Paesi dell’Unione tranne il
Lussemburgo si convincessero della necessità di allentare l’austerità,
quei 600.000 lussemburghesi basterebbero a frenare il progresso sociale
di 500 milioni di europei.
L’Unione Europea è allora la forma
storica assunta nei paesi europei dalla lotta di classe dall’alto verso
il basso, per eludere la concretezza del conflitto tra sfruttati e
sfruttatori che negli anni Settanta aveva condotto ad importanti
conquiste per i lavoratori. Con la mera applicazione di politiche
economiche proclamate come inevitabili, tecniche, disegnate da centri
decisionali lontani e inarrivabili, sono state applicate misure ispirate
al più profondo ed estremo neoliberismo. Culturalmente si è plasmato e
diffuso per anni un nuovo approccio politico, fondato sull’idea che non
ci sia più niente da fare, perché vi sono forze oggettive invalicabili
che determinano il funzionamento di un sistema economico contro cui non è
possibile ribellarsi, se non in modo testimoniale. Non resterebbe
allora che il misero adeguamento alla realtà e, al limite, debolissime
lotte di retroguardia per rendere questo adeguamento il meno traumatico
possibile. Questa cultura dell’impossibilità di incidere ha fatto a
pezzi decenni di politica attiva, facendo precipitare i protagonisti di
una stagione di lotte e conquiste nel nichilismo o, peggio ancora,
nell’entusiasta adesione all’esistente visto come inevitabile fine della
storia. Lottare contro l’Unione Europea significa quindi innanzitutto
lottare contro la fine stessa della politica come luogo del conflitto e
dell’elaborazione di un diverso progetto di società.
Così come il processo di emancipazione
degli sfruttati era stato accompagnato dalla costruzione di un quadro di
politiche economiche favorevoli alla piena occupazione, alla difesa del
lavoro, al rigido controllo statale e alla programmazione economica,
allo stesso modo la fase successiva di arretramento realizzata a partire
dagli anni Settanta è stata contrassegnata da una vera e propria
controrivoluzione liberista, le cui forme istituzionali coincidono con
le tappe del progetto di integrazione economica e monetaria europea. L’Europa si presenta, dunque, come il dispositivo storico concreto della lotta di classe
mossa dagli sfruttatori contro gli sfruttati: fuori dall’ideologia
europeista dell’inevitabilità della globalizzazione, fuori
dall’illusione di un’Europa dominata dalla finanza a cui contrapporre la
politica dell’Europa dei popoli, il progetto di integrazione europea
appare tutt’altro che un fallimento, bensì come il grande successo di
chi ha voluto reprimere nella povertà e nella precarietà decenni di
conquiste sociale da parte delle classi subalterne.
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