Le scene recitate ieri nell’aula di Montecitorio hanno sollevato il prevedibile coro dei moralisti in servizio effettivo permanente, con effetti quasi tragicomici, stile “dove siamo finiti, signora mia!”.
Non ci uniremo a questo coro.
Il Parlamento italiano del dopoguerra è stato teatro di fiere risse e scazzottate, soprattutto tra comunisti e fascio-missini (si distinsero in diversi periodi Giancarlo Pajetta e una pattuglia di picchiatori eletta con Almirante). Lo scontro anche fisico, nella politica vera, è nell’ordine delle cose nella tradizione di quasi tutti i Parlamenti mondiali, anche di quello britannico.
Dunque, nessun moralismo è ammissibile. In fondo, la politica è la continuazione della guerra con altri mezzi. E viceversa, secondo il proverbiale aforisma di von Clausewitz.
Ma, appunto, la politica come battaglia è vera quando si scontrano interessi sociali irriducibili, che a volte trovano un temporaneo punto di mediazione (ne discendono in quel caso le “riforme”, che non hanno affatto soltanto un segno “progressivo”, come ben sappiamo in Italia negli ultimi 40 anni), altre no (e ne conseguono conflitti, che in qualche caso si manifestano fisicamente anche nel luogo deputato alla mediazione politica tra interessi sociali diversi).
Una scazzottata tra nemici – momentaneamente entrambi disarmati – è insomma un evento ammissibile e in larga misura anche nobile, trasfigurazione ideale concentrata di interessi sociali insopprimibili.
La pantomima di ieri, con Emanuele Fiano pallido emulo di Mario Merola (massimo protagonista del genere musical-teatrale “sceneggiata napoletana”), commessi niente affatto trafelati, banchi del governo ululanti e presidente della Camera in vistoso imbarazzo, non rientra invece affatto nella sfera della nobiltà.
A un osservatore minimamente abituato sia alle discussioni parlamentari che alle risse di strada, tutto quello scomposto agitarsi suonava falso come una moneta di cartone.
La ragione non sta nella pochezza dei protagonisti, davvero esangui fantasmi rispetto ai dirigenti politici di ogni partito della Prima Repubblica. Quella pochezza è infatti un risultato, una conseguenza, non certo una causa.
Bisogna insomma chiedersi – e spiegare – come sia stato possibile che certi “personaggetti” siano assurti a cariche manifestamente troppo impegnative per le loro fragili spalle. E menti. Bisogna chiedersi dove sia nata la “crisi della politica” che ha dissolto quelle autentiche scuole di formazione – e quindi severe macchine di selezione – che erano i partiti, i sindacati, le associazioni nazionali; i “corpi intermedi”, insomma, capaci di rappresentare interessi sociali diversi, sintetizzarne i bisogni sotto forma di proposte di legge, e infine mediarli con altri interessi sociali (e altra proposte di legge) fino a partorire una norma dotata di una ragione, anche se non necessariamente condivisibile.
Una dinamica – non sempre virtuosa – possibile solo grazie ad una condizione: una relativa possibilità di decidere autonomamente, come paese inserito in un sistema di mercato, l’allocazione della proprie risorse, la redistribuzione della ricchezza tra le varie classi sociali (tanto alle imprese di ogni ordine e grado, poco – e strappato coi denti – a operai, impiegati, pensionati, disoccupati, senza casa, studenti, ecc) tramite le scelte di spesa pubblica.
In altri linguaggi viene chiamata sovranità economica, e per l’Italia del dopoguerra anche questa è stata sempre assai limitata, ma comunque meno di quanto non avvenisse per la politica estera e militare (subordinazione forte agli Usa, con qualche libertà sul Medio Oriente; integrazione totale nella Nato).
Per poco libera che fosse, insomma, c’era un discreto margine di libertà di scelta su cui i partiti (e sindacati, e associazioni, e movimenti, ecc) potevano incidere agendo conflitto sociale e/o parlamentare. Quel margine, in altri termini, permetteva di fare politica, e quindi anche di selezionare un personale in grado di corrispondere a quell’impegno. Non sempre “persone perbene”, anzi… Ma sicuramente persone mediamente capaci, con qualche picco da statista.
Produceva persino ottimi economisti eterodossi, molti di scuola marxista, tanti di scuola keynesiana, e anche singolari miscugli di entrambe le scuole.
Tutto ciò non esiste più perché non esiste più quel margine di autonomia di scelte. La caduta del Muro ha preceduto di un attimo (1989-1992) gli accordi di Maastricht, la serie di trattati progressivamente più vincolanti, l’adozione della moneta unica e il trasferimento della sovranità economico-finanziaria – la “legge finanziaria” ora si chiama “legge di stabilità”, e la parola ha un senso – alla Commissione Europea. E quella monetaria alla Bce.
Significa che la più importante delle leggi dello Stato – quella che anno dopo anno definisce gli indirizzi di politica economica, di bilancio e di redistribuzione – viene riscritta, corretta, emendata, integrata, da un’autorità superiore che riflette interessi estranei a quelli sociali di ogni paese. Quegli interessi non sono mediabili, ma si impongono per pura forza quantitativa e sistemica (se non gli si obbedisce, “i mercati” te la fanno pagare). Al tempo stesso, anche gli interessi sociali delle classi medio-basse di ogni paese non trovano più un ambito per la mediazione. E dunque vengono bellamente ignorati.
O meglio. Per le élite burocratico-finanziarie quegli interessi in senso lato “popolari” non devono trovare accoglienza dentro la politica generale dell’Unione Europea. Ma per le “classi politiche” nazionali c’è comunque la necessità di imbastire ogni anno qualche “falso bersaglio” con cui giocarsi la partita del consenso elettorale, pena la scomparsa, giocando con gli spiccioli. Gli “80 euro” di Renzi, la “quota 100” di Salvini, il “reddito di cittadinanza” di Di Maio. Questo, e non altro, è il margine residuo su cui si finge una politica.
Di qui il degrado della classe politica (che non può essere più almeno in parte “dirigente”), il prevalere della “comunicazione” (pura propaganda, senza alcun riferimento alla prassi concreta), la “discesa in campo” di soldatini e fortunelli, nani e ballerini, truffatori più o meno abili. Tanto non c’è niente da decidere, mediare, comporre, progettare, per far avanzare la società e il paese.
Non scompare la competizione formale, però. Ogni gruppo di aspiranti poltronari sa che deve battagliare sul nulla, dotarsi di poderosi strumenti di propaganda (media e social), allearsi e disallinearsi ad ogni snodo. Sa che deve “farsi notare”, per rimanere sulla breccia.
Di qui l’innalzamento continuo dei toni, le urla scomposte, le accuse di infimo livello, gli insulti di strada, i “ti faccio vedere io” ma “tenetemi, presto, mica pensate che faccio sul serio” che la tv ci distribuisce quotidianamente nei talk show e in Parlamento. Non si arriva alla scazzottata perché, come al cinema, ci si muove a favore di telecamera. Ed è inutile farsi male…
Piccoli personaggetti in cerca di visibilità, come surrogato della capacità di progetto e di proposta. Attori, non politici; men che mai “statisti”.
E’ inutile chieder loro “rispetto per le istituzioni”, come tardivamente è stata costretta a fare una delle protagoniste del processo di dissoluzione della politica a livello nazionale ed europeo, come Emma Bonino. E’ tutto vero: la Costituzione non è più riconosciuta da nessuno, le istituzioni sono carne di porco per chi le conquista, il Parlamento non conta più nulla e viene sbertucciato da ogni governo (e da Bruxelles). Ma il dentifricio è ormai fuori dal tubetto, nessuno può farlo rientrare.
E’ inutile chieder loro di “non dare spettacolo”. Stanno lì solo per quello, ormai…
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