Oggi, le attenzioni sulla Francia non
sembrano più tanto riguardare le ormai prolungate proteste del
movimento dei ‘gilet gialli’, quanto piuttosto una recente dichiarazione
del Commissario Europeo Pierre Moscovici, il quale ha recentemente
affermato che il governo Macron, a differenza del nostrano esecutivo
gialloverde, avrà la facoltà di realizzare un deficit di bilancio piuttosto generoso, nell’ordine del 3,5%. Uno scenario ben diverso da quanto invece sta accadendo nella ‘trattativa’ tra Conte e i vertici di Bruxelles.
Vi sono tre ordini di ragioni che
spiegano perché l’Europa redarguisce l’Italia per un deficit pubblico
prossimo al 2% mentre consente alla Francia di superare abbondantemente
il limite del 3% stabilito dai Trattati.
In primo luogo, questa apparente
difformità nel metro di giudizio della disciplina fiscale risulta
perfettamente coerente con la logica economica seguita dalle istituzioni
europee. Da un lato, l’Italia ha un debito pubblico di oltre il 130%
del PIL contro il 100% della Francia: poiché il Fiscal Compact
prevede un rigido piano di riduzione del debito fino al 60%, chi è
gravato da un debito maggiore deve fare sforzi maggiori. Ciò accade in
quanto, secondo l’ideologia dominante, più hai vissuto ‘al di sopra
delle tue possibilità’ e più devi stringere la cinghia per redimerti: è
il circolo vizioso dell’austerità che ha portato in dieci anni la Grecia
a distruggere la propria economia senza ridurre di un centesimo il
proprio debito pubblico, ma addirittura accrescendolo.
D’altro canto,
pesano sull’Italia prospettive di crescita fosche mentre la Francia può
contare su una ripresa più solida. Sempre secondo il pensiero economico
dominante, fatto proprio dalle istituzioni europee,
il libero agire delle forze di mercato sarebbe in grado di garantire la
migliore situazione possibile, con il pieno impiego del lavoro e del
capitale e i giusti prezzi per ogni merce. Ne discende che l’intervento
pubblico in economia rompe l’armonia dei mercati e distorce l’equilibrio
della concorrenza: questa è la giustificazione teorica dei fatidici
vincoli europei, concepiti come un limite all’interferenza dello Stato
nel libero operare delle forze di mercato. In sostanza l’intervento
pubblico finisce per configurarsi come ‘un di più’, un mero correttivo
introdotto nell’economia di mercato per garantire minimi margini di
equità ma sempre al costo di un peggioramento della produttività
complessiva. Per questa ragione, i vincoli europei sono intrinsecamente
pro-ciclici: garantiscono maggiori margini di spesa ai Paesi che
crescono di più mentre riducono il campo d’azione della politica fiscale
ai Paesi che crescono meno, in completa contraddizione con i principi economici keynesiani,
secondo cui la crescita dipende innanzitutto dallo stimolo fiscale dato
all’economia.
Spiega Keynes che la crescita e l’occupazione dipendono
dal volume della domanda aggregata, e la spesa pubblica è uno degli
elementi principali della domanda, nonché l’unico capace di reagire
durante una flessione dell’economia, mentre consumi e investimenti
privati fisiologicamente si comprimono insieme al reddito. Dunque, per
Keynes lo strumento principale per stimolare l’economia è la spesa
pubblica, tanto più utile quanto maggiore è la carenza di domanda che
affligge un’economia.
Al contrario, i vincoli europei limitano la spesa
pubblica in misura tanto maggiore quanto più l’economia è in difficoltà.
Guardando sempre al primo laboratorio dell’austerità europea, la
Grecia, notiamo che la rigida applicazione di questa logica economica ha
cancellato il 22% della produzione nazionale, riportando il Paese
indietro di vent’anni. Dunque, il fatto che alla Francia sia consentito
di superare il 3% di deficit mentre noi finiamo nell’occhio del ciclone
con il 2% (che si sostanzia in un aumento dello spread, oltre
che nelle minacce di una procedura di infrazione) non appare arbitrario,
ma è coerente con l’assurda gabbia costituita dai vincoli europei alla
spesa pubblica e dalle logiche economiche su cui è fondata.
Tuttavia, sappiamo bene che l’Italia non
sta affatto allentando la cinghia perché la manovra fiscale del Governo
gialloverde risulta, a conti fatti, in perfetta continuità con l’austerità imposta dai governi precedenti:
un avanzo primario di bilancio che sottrae risorse all’economia (circa
l’1,5% del PIL) indebolendo la domanda e dunque la crescita. Questa
continuità stride con il particolare livello di guardia che l’Europa
mantiene verso la manovra italiana.
Un secondo ordine di ragioni aiuta
dunque a comprendere perché l’Italia sia sotto l’occhio del ciclone. Il
governo francese, infatti, è espressione diretta di quella classe
politica ideologicamente europeista che domina oggi le istituzioni
europee di ogni ordine e grado, mentre il governo italiano – eletto con
il voto delle vittime dell’Europa dell’austerità – è espressione di
quelle forze politiche nazionaliste o sovraniste che contendono agli
europeisti la gestione dell’austerità: una vera e propria guerra tra
bande che condividono appieno l’ideale liberista del funzionamento
dell’economia mentre si distinguono per mere ragioni partitiche e culturali. In questo scontro tra fazioni tutto interno alla classe dirigente europea, il governo italiano rappresenta i parvenu, i nuovi barbari che la vecchia élite dominante nella burocrazia europea prova disperatamente ad arginare a colpi di spread,
umiliazioni politiche e procedure di infrazione. Anche per questo
motivo, dunque, assistiamo ad un fuoco di fila delle istituzioni europee
contro il governo gialloverde mentre l’europeista Macron dorme sonni
tranquilli con un deficit sensibilmente più grande di quello italiano:
si tratta infatti di un disavanzo primario dell’1,8%, a differenza
dell’avanzo primario di 1,5 punti che realizzerà il Governo Conte.
In realtà, e veniamo al terzo ordine di
ragioni che spiegano questa diversità di trattamento tra Italia e
Francia, i sonni di Macron ultimamente non sono proprio tranquilli. Il
movimento dei ‘gilet gialli’ ha da settimane mosso guerra alle misure di
austerità imposte dal Governo ricorrendo a tutti gli strumenti di
lotta, dai blocchi stradali agli scioperi, dai cortei oceanici e
pacifici a segnali di guerriglia urbana delle avanguardie. È la lotta di
classe, spuria come sempre,
che ha costretto Macron a forzare la mano con l’Europa per maggiori
margini di spesa. La lotta dura paga, e la stessa Europa può essere
costretta a sbugiardare la sua rigida disciplina di bilancio quando
viene messa con le spalle al muro. In Italia tutto tace, e le poche
fiammate di conflitto non riescono mai ad espandersi, ad incendiare la
prateria, e l’Europa ha così mano libera nel continuare ad alzare
l’asticella, con ripetute richieste capestro di disciplina fiscale
che trovano solerti esecutori in questo governo di pagliacci, partito
in fanfara per eliminare la povertà e combattere la cieca austerità e
finito come un triste epigono dei governi Letta-Renzi-Gentiloni.
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